Si definirebbe mai liberale un laburista inglese, un socialdemocratico tedesco, un socialista francese o spagnolo? Si definirebbe mai liberale – con la “e” finale, nell’accezione europea del termine – Bernie Sanders? Difficile non porsi la questione leggendo Emanuele Felice e le sue Risposte liberali di sinistra agli ultimi difensori del neoliberismo (Domani, 5 febbraio). Come mai la componente più significativa della sinistra italiana – per bocca del suo responsabile economico e non di un passante – non può far altro per definire se stessa se non fare ricorso ad altro da sé?

È certamente vero che il liberalismo ha contaminato il pensiero socialista riformista e non soltanto dopo la seconda guerra mondiale (si pensi solo a Carlo Rosselli). Quale fosse il problema, all’epoca, era chiaro: tentare di rendere compatibili gli obiettivi del socialismo con un contesto non-rivoluzionario. Preservando, cioè, le istituzioni liberaldemocratiche. Per dirla con Norberto Bobbio, la questione era «il liberalismo inteso come metodo, il socialismo come fine».

Però non a caso di socialismo liberale si parlava: quale sia il sostantivo e quale l’aggettivo dovrebbe essere chiaro a chiunque. Ma non a Emanuele Felice il quale inverte – forse inavvertitamente – i termini della questione e parla di liberalismo sociale che, parafrasando Bobbio, potremmo a questo punto definire come la modalità di «riaffermare le irrinunciabili esigenze sociali senza rinnegare il liberalismo come fine».

In Italia si immagina che l’operazione possa riuscire con una certa facilità: siamo, dopotutto, un paese che, fin da Benedetto Croce, tende a scindere le libertà cosiddette economiche dalle libertà cosiddette civili, illudendosi che si possano avere le une senza le altre. Quest’illusione funzionava però molto di più nel secolo scorso di quanto faccia ora. Per esempio, è evidente che se si vuole riformare la globalizzazione e ridurre la libertà degli scambi poi è difficile esporsi a favore della libertà di migrare, sostenendo che debbano potersi spostare le persone ma non le merci. Parimenti, non si può avere libertà di espressione se si nazionalizzano i mezzi d’informazione e li si mette sotto il controllo pubblico. L’idea, che ha un sapore molto anni Trenta, è stata recentemente rispolverata in Spagna da Podemos, che almeno non pretende di essere “liberale”.

Il punto di svolta

In Italia l’inflazione della parola “liberale” si verifica in un momento preciso: la fine della prima repubblica, il crollo del muro di Berlino, la manifestazione evidente di corruttele e malaffare legate all’industria di stato, la necessità, per la parte del ceto politico che era sopravvissuta alle inchieste giudiziarie, di accreditarsi a livello internazionale. In quella stagione sono state fatte riforme liberali proprio dai partiti della sinistra. Da quel momento in poi la locuzione “rivoluzione liberale” trova posto anche negli ordini del giorno delle assemblee di condominio.

Ma l’agenda di riforme degli anni ’90 era in larga misura dettata dalla situazione in cui si trovava il Paese: privatizzare fu indispensabile perché la nostra finanza pubblica non consentiva altro. Le scelte dei governi di allora – proprio perché dettate dalla contingenza e non dalla convinzione – ebbero scarsa efficacia nel convincere i loro elettori che fosse necessario ripensare a certi assunti e abbracciare un’altra visione del mondo. In una recente presentazione del libro di Claudio Petruccioli, Rendiconto, Claudio Martelli ha perfidamente osservato che non a caso quella della Bolognina fu una «svolta» e non una «revisione». Le parole sono importanti, soprattutto quando si ha a che fare con un’ideologia, il marxismo, che aveva la densità di una lingua.

Nascondersi

Ma se non fu una «revisione», cosa fu quella svolta? Uno di noi due pensa di poter rispondere con un aneddoto risalente a più di vent’anni fa. In un’epoca che sembra ormai appartenere a una diversa era geologica, fare politica attiva implicava ritrovarsi spesso e volentieri a discutere in quegli ambienti pieni di fumo che allora si chiamavano “sezioni”. Al termine di una lunga e affollata serata destinata a chiarire il perché ed il percome di una alleanza chiamata Ulivo, in quella sala restano in due. Il principale relatore della serata e un anziano contadino iscritto al Pci per tutta la sua vita e poi al Pds, rimasto in silenzio e immobile durante tutto il dibattito. Alzandosi per avviarsi verso l’uscita, con uno sguardo d’intesa, il secondo mormora: «Ho capito, ho capito… Dobbiamo nasconderci». E questo è, in buona sostanza, il messaggio che Emanuele Felice trasmette, fra una citazione e l’altra. Si prende a prestito una identità terza perché pensiamo che così facendo potremo essere accettati più facilmente: un po’ come accadeva agli emigrati meridionali del dopoguerra che nello spazio di un mattino acquisivano financo l’accento dei loro ospiti settentrionali tanto da essere soprannominati, al loro ritorno nei luoghi d’origine, i «Ciau neh!».

La domanda, ieri come oggi, è dunque perché mai la principale componente della sinistra italiana non si accontenti di segnalare la propria capacità di assorbire e fare proprio questo o quel concetto proprio di altre impostazioni ideali e culturali ma abbia piuttosto bisogno di rinunciare tout court alla propria identità assumendone una terza.

Forse in un sistema politico istituzionalmente fragile come quello italiano è una buona cosa avere in uno dei due principali schieramenti un ceto politico di onesti professionisti della gestione del potere che fanno della assenza di identità un elemento di forza, adattandosi mimeticamente a proposte e posture degli alleati di turno. Ma fa un po’ sorridere che costoro sentano il bisogno, forse per nostalgia della politica di una o due ere geologiche fa, di prendere a prestito una identità terza, come se le famiglie della storia del pensiero politico – e il liberalismo in particolare – fossero menù dai quali scegliere liberamente il piatto preferito. La libertà ha molte dimensioni, ma nessuna di esse sopravvive se solo una di esse langue.

Emanuele Felice non è nuovo al tentativo di ridefinire cosa sia il liberalismo per giungere a negarlo senza dirlo. Un suo saggio scritto insieme a Giuseppe Provenzano, ministro per la Coesione territoriale, apparso sul Mulino si chiudeva con un paragrafo destinato a «salvare il liberalismo da se stesso». L’idea stessa che qualcuno debba essere salvato da se stesso è la radicale negazione delle ragioni del liberalismo.

Ovviamente, se la sinistra italiana debba avere una identità e quale questa debba essere, è un problema che non ci compete. Auguriamo a Emanuele Felice la miglior fortuna nel risolverlo. Suggeriremmo solo di provarci senza tirare in ballo liberalismo e liberali, fornendo curiose interpretazioni dell’uno e bizzarri identikit degli altri. I liberali sanno bene che quando si suggerisce che l’intero spettro politico possa essere esaurito da varianti diverse del pensiero liberale – i liberali di sinistra e i liberali di destra – è semplicemente perché così facendo ci si augura che di quel pensiero ci si possa sbarazzare al più presto.

Risponde Emanuele Felice

Ho letto con interesse e rispetto la replica di Alberto Mingardi e Nicola Rossi. Sintetizza bene le posizioni del liberalismo di destra: il neoliberismo è l’unico inveramento possibile del pensiero liberale. Sul campo opposto, quello cui appartengo, il liberalismo di sinistra considera invece il neoliberismo una distorsione, quando non un vero e proprio tradimento, del pensiero liberale. Il dibattito è aperto. Quel che non capisco però è perché gli autori lo sviluppino attribuendo a me retropensieri o inconfessabili timidezze; oppure addirittura tirando in ballo proposte che non mi sono mai passate per la mente, come quelle di Podemos sulla nazionalizzazione dei mezzi di informazione (fra l’altro il Pd è affratellato in Spagna con il Psoe, non con Podemos), oppure sulla limitazione del commercio (io ho sempre parlato di regolare la globalizzazione finanziaria, proprio per salvare la globalizzazione del commercio).

Il liberalismo progressista (o di sinistra, o sociale) ha avuto un posto importante nella storia dell’occidente. Penso a Franklin Delano Roosevelt, forse il più grande presidente della storia americana. Penso a William Beveridge, il liberale inglese che è stato il fondatore del moderno welfare state. E oggi, non è un caso che Sanders in America sia spesso chiamato liberal (senza la e). Benché sia un social-democratico.

Anche il socialismo liberale ha avuto dei giganti, in Europa. Fra tutti Willy Brandt, che ha governato la Germania fra gli anni Sessanta e Settanta. Per l’Italia, oltre ovviamente a Rosselli, si pensi a Sandro Pertini.

Ma in fondo gran parte della storia del Psi di Pietro Nenni è una storia di socialismo liberale: ed è una storia fondamentale per la modernizzazione del nostro paese, specie negli anni Sessanta (molto prima del finale craxiano: una stagione che invece aggravò i problemi dell’Italia). Notare: queste figure del socialismo liberale precedono, nettamente, la svolta neoliberale della sinistra (quella è un’altra cosa). E sono invece proprie della socialdemocrazia (giusto!).

Liberalismo e socialismo sono due ideologie che mirano entrambe all’emancipazione umana, attraverso la dignità del lavoro. Rimangono distinte su alcuni temi di fondo, ovviamente (la proprietà privata come dimensione imprescindibile della realizzazione umana; la centralità dell’individuo rispetto alla collettività).

Ma quando nella storia si sono incontrate, sono riuscite a fare grandi cose. Da sole, contrapposte l’una all’altra, hanno quasi sempre fallito. Aggiungo che, a mio parere, il Pd è il luogo naturale di quest’incontro. Ma questo è un altro discorso.

 

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