La catena delle caffetterie affronta la peggiore crisi della sua storia con un amministratore che è arrivato da pochi mesi e che ha deciso di licenziare 1.100 persone. Ma alcuni problemi sembrano così radicati che non è detto che possano avere davvero una soluzione
Starbucks ha annunciato il licenziamento di circa 1.100 dipendenti amministrativi e il freno alle assunzioni per coprire molte posizioni che sono ancora aperte. Questa decisione rientra nella strategia del nuovo amministratore, Brian Niccol, che è stato nominato al vertice dell’azienda la scorsa estate proprio per affrontare la crisi.
Il suo obiettivo, ha fatto sapere in una comunicazione interna, è ora di snellire la struttura aziendale e di rimuovere tutti quei livelli burocratici che sono ridondanti. Niccol ha dichiarato che la misura è necessaria per affrontare le difficoltà di Starbucks. Ma è un provvedimento senza precedenti nella storia dell’azienda.
Arriva dopo che gli ultimi dati economici avevano confermato il calo negli utili. Il bilancio certificava un meno 23 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: una situazione contabile che però risentirebbe anche degli investimenti nel frattempo effettuati. Niccol ha un obiettivo difficile da realizzare, forse impossibile: riportare l’azienda indietro nel tempo, al suo antico successo commerciale.
La sfida cinese
All’apparenza non c’è posto migliore dell’Italia per capire le contraddizioni e le difficoltà di Starbucks, forse la caffetteria più famosa al mondo, costruita per offrire a tutti un’imitazione dell’esperienza italiana di unire al caffè anche un’atmosfera sia intima sia sociale. Eppure Starbucks ha impiegato 47 anni per aprire il primo punto vendita a Milano e da lì, nel giro di qualche anno, è riuscita finalmente ad espandersi in altre città: a Torino, Genova, Roma, Firenze e Napoli, fra le altre. Il punto è che per molto tempo il nostro paese sembrava irraggiungibile, per la sua cultura per l’espresso, ma anche per la moltitudine di piccoli bar di quartiere, con un modo di vivere l’esperienza che è molto lontano rispetto a quello americano.
Ma è difficile pensare che Niccol, che è un veterano dell’industria della ristorazione, abbia in mente l’Italia quando nel suo ufficio californiano fa roteare il mappamondo. Sa che c’è un altro mercato dal quale arrivano i veri problemi.
La sua sfida impossibile è di riuscire a risollevare l’andamento delle caffetterie in Cina. I ricavi dei 7.306 punti vendita cinesi sono diminuiti dell’11 per cento nel primo trimestre dello scorso anno e l’emorragia sembra solo all’inizio. Il problema è che in passato Starbucks aveva in Cina una sorta di monopolio, ma ora le cose sono molto cambiate: è aumentata la concorrenza, sia di aziende straniere sia soprattutto locali, e i consumatori si sono fatti più cauti e preferiscono spendere un po’ meno per il caffè. In un certo senso, in Cina sta succedendo l’inverso di quello che è accaduto in Italia.
Da noi la cultura delle caffetterie era così radicata che per Starbucks era poco conveniente aggredire la concorrenza. In Cina invece, dove il mercato è stato costruito praticamente da zero, le condizioni sono cambiate solo di recente, ma in maniera così impattante ed esponenziale da avere conseguenze profonde sui conti globali dell’azienda. L’avversario più temibile si chiama Luckin Coffee, una catena di caffetterie fondata a Pechino nel 2017. Nel corso del 2023, ha superato Starbucks per numero di punti vendita in Cina.
Ma questa è solo una delle sfide che il Ceo dovrà affrontare, dopo che dalla scorsa estate ha accettato l’incarico, con un bonus alla firma di 10 milioni di dollari, una concessione di azioni dal valore di 75 milioni di dollari (subordinata alle prestazioni e alla durata dell’incarico) e uno stipendio da 1,6 milioni di dollari, con bonus che possono superare i 7 milioni di dollari. Niccol ha accettato un lavoro ben pagato, ma altrettanto difficile: in questo articolo cerchiamo di capire perché, nel tempo che impieghereste a bere un frappuccino.
Cambiamenti
Per farlo bisogna partire dai giorni travagliati che hanno portato al licenziamento di Laxman Narasimhan, l’amministratore delegato che guidava l’azienda prima di Niccol. Come ha ricostruito il Wall Street Journal, citando fonti interne all’azienda, Narasimhan aveva incontrato i dipendenti nella sede centrale a Seattle appena un mese prima, il 31 luglio, cercando di tranquillizzarli: «È vero, abbiamo grandi sfide davanti a noi», aveva detto. «Nessuno lo nega. Ma queste sfide non sono impossibili».
In realtà, il consiglio d’amministrazione di Starbucks stava cercando il suo sostituto già da qualche tempo. Mellody Hobson, che del consiglio era la presidente, aveva già fatto chiamare Niccol, cinquantenne a capo di Chipotle, una delle più famose catene di ristoranti di cibo messicano negli Stati Uniti. Lo aveva incontrato personalmente e lo aveva convinto a prendersi un fardello non da poco: l’obiettivo era di portare Starbucks fuori dalla crisi, dei conti e dell’immagine, per tornare ad essere una delle tante sfumature del sogno americano nel mondo.
Questa storia non può che tenere conto di alcuni investitori, che da qualche tempo stavano facendo pressione per un cambiamento. In particolare, deve aver giocato un ruolo importante l’ingresso di Elliot Investment Management, che pochi giorni prima aveva deciso di ufficializzare l’investimento in Starbucks. Secondo i media americani, lo aveva fatto chiedendo di partecipare al consiglio d’amministrazione, ma senza pretendere il licenziamento di Narasimhan. È più probabile che in questa scelta abbia giocato invece un ruolo Howard Schultz, lo storico amministratore delegato che per più di trent’anni ha guidato l’esplosione e poi la crescita dell’azienda. Secondo il Financial Times, è lui il vero protagonista di questa svolta improvvisa.
La storia di Starbucks
Chiunque conosca Starbucks sa da dove deriva il suo successo. Per decenni, ha rappresentato per gli Stati Uniti l’immaginario romantico di una versione rivista e corretta di una caffetteria italiana. L’idea era di trasportare su larga scala il sogno di un posto che non è né la casa né l’ufficio, ma ha lo stesso aspetto familiare. Il luogo dove, sorseggiando un caffè, può nascere il progetto di una start up, si può scrivere un romanzo o si può semplicemente evadere dal resto della quotidianità.
Questa intuizione si deve proprio a Schultz, nato a Brooklyn da una famiglia povera. Durante un viaggio a Milano, a metà degli anni Ottanta, riuscì a intercettare quell’affascinante mistero che caratterizzava i piccoli bar di quartiere in Italia, luoghi vissuti dagli stessi clienti affezionati, che il barista imparava a chiamare per nome.
Gli allora proprietari di Starbucks non credevano che quella stessa atmosfera potesse essere trasferita con successo nei locali che avevano aperto a Seattle. Schultz decise dunque di fare testa propria. Progettò una sua catena di caffetterie e la chiamò “Il giornale” (proprio così, in italiano). Riuscì a ottenere abbastanza fondi per potersi comprare Starbucks, diventandone l’amministratore delegato e guidandone l’ascesa nell’olimpo mondiale.
Oggi Starbucks ha circa 39mila punti vendita che sono distribuiti in circa 80 paesi, Italia compresa, e impiega circa 460mila lavoratori, senza contare ovviamente i prossimi licenziamenti. Ma nel frattempo è il mondo ad essere cambiato: le persone sono abituate a vivere nel virtuale e sembrano apprezzare meno l’idea di avere un posto familiare dove prendere il caffè. Gran parte dei problemi di Starbucks nasce dal fatto che le caffetterie, soprattutto nelle grandi città, hanno finito per assomigliare a dei fast food. I clienti ordinano attraverso le app, spesso apprezzando la possibilità di costruirsi il prodotto da consumare. L’azienda ha stimato che i baristi possono personalizzare le bevande in più di 170mila modi diversi.
L’esperienza
Il problema è che questo si traduce spesso in una dilatazione dei tempi di preparazione. I clienti lamentano il fatto che i punti vendita sono affollati e i tempi d’attesa sono sempre maggiori. Molti degli spazi che un tempo erano utilizzati per ricreare un ambiente familiare sono stati tolti, per fare più spazio alle code dei clienti. Starbucks è diventato sempre di più “un luogo di passaggio”, lontano dalla visione che ne aveva decretato il successo.
In più, soprattutto dopo la pandemia, i prezzi delle materie prime sono aumentati e l’inflazione ha fatto crescere anche i prezzi delle bevande. In questo contesto, l’azienda ha registrato dati economici sempre peggiori, fino a un crollo del 20 per cento nel valore delle azioni. Proprio Schultz, in un post su LinkedIn della scorsa primavera, ha scritto che per uscire dalla crisi Starbucks avrebbe dovuto tornare «a focalizzarsi sull’esperienza» dei propri clienti. In un certo senso, era già una condanna per Narasimhan, al quale aveva lasciato il controllo dell’azienda solo un anno prima, nella primavera del 2023.
Il nuovo Ceo
I media americani si chiedono se basterà la nomina di un nuovo amministratore delegato per risollevare le sorti dell’azienda e se davvero la strategia di investire nei locali, per farli rispondere all’antica filosofia, sia sufficiente. Il licenziamento di 1.100 dipendenti è il segnale che la crisi è troppo grande per Starbucks, o al contrario che serva un enorme sacrificio per rinascere? Starbucks sarà la fenice che si rigenera dalle sue ceneri, o al contrario la crisi è ormai strutturale e insovvertibile, perché è radicata nel tempo che stiamo vivendo.
Di sicuro Niccol è stato assunto perché sembrava avere tutte le carte in regola per affrontare la sfida, partendo da un’esperienza che unisce un modo creativo di vivere il marketing a competenze più operative. Anche i mercati avevano reagito con ottimismo, riportando in alto il valore delle azioni.
Guardando al suo incarico precedente, Niccol aveva assunto la guida di Chipotle nel momento peggiore della sua storia, mentre veniva travolta da uno scandalo di sicurezza alimentare. Nel giro di sei anni, era riuscito a ricostruirne il prestigio e a farne crescere nettamente il giro d’affari.
Per fare lo stesso con Starbucks, ha contrattato di poter svolgere parte del suo ruolo in smart working, con un ufficio per lavorare “da remoto” appositamente costruito nella California meridionale (e un jet sempre a disposizione per raggiungere la sede centrale a Seattle). Chissà se la decisione di licenziare 1.100 persone l’ha presa mentre era in volo, sorseggiando un caffè. In fondo anche questo sarebbe un segno dei tempi.
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