Da anni alcuni marchi di generi alimentari riducono il formato delle confezioni, lasciando invariato il prezzo dei prodotti: i consumatori sono tratti in inganno e sottovalutano il carovita. Ma se ora l’inflazione cresce di meno, perché la shrinkflation non si è fermata? La linea morbida della nostra Antitrust e le nuove leggi di Usa e Francia
Buste di patatine piene d’aria e confezioni di detersivi più piccole. Pacchetti di pasta da 400 grammi e qualche tovagliolo in meno nel pacco. Da tempo chi va a fare la spesa deve fare attenzione non solo al prezzo, ma anche alla quantità di prodotto. Si riduce il formato, ma il costo rimane lo stesso. O addirittura aumenta.
È la shrinkflation, una tecnica di marketing che dilaga da qualche anno tra le aziende del largo consumo. Il termine deriva dall’unione del verbo to shrink (restringere) e del sostantivo inflation (inflazione) e descrive uno stratagemma poco trasparente nei confronti dei consumatori. In molti casi, infatti, questi cambiamenti rischiano di passare inosservati.
Le persone sono sensibili al prezzo ma spesso non notano piccole modifiche nella confezione o non fanno caso alle indicazioni sul peso riportate in etichetta. Spesso, inoltre, a una diminuzione della quantità si associa un nuovo packaging che trae in inganno. Per questo è bene controllare sempre il prezzo unitario anziché quello della singola scatola, per verificare il costo effettivo del prodotto anche quando la dimensione varia.
«Alcune imprese mascherano gli aumenti di prezzo con fenomeni speculativi, ingannando sul reale valore del prodotto. Noi abbiamo fatto tante segnalazioni all’Antitrust e portato il tema all’attenzione del parlamento. Eppure il fenomeno non accenna a fermarsi, nonostante il calo dei costi di produzione», dice a Domani Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori, che da tempo denuncia le pratiche di “sgrammatura”.
Un formato più piccolo
Altroconsumo, che monitora i prezzi e le quantità di alcuni marchi, ha segnalato che i rincari al litro o al chilo sono consistenti a causa della shrinkflation: per metà dei prodotti si parla di variazioni superiori al 30 per cento. L’ultima indagine completa, risalente all’anno scorso, ha registrato rincari per prodotti come sapone e bagnoschiuma, yogurt e affettati confezionati.
Uno dei casi più evidenti è quello del detersivo per piatti Nelsen, la cui confezione è passata da un litro a 85 centilitri, con un rincaro del 53 per cento. O delle patatine Pringles, con confezioni ridotte da 200 a 175 grammi. Sul fronte degli alcolici, invece, la birra Peroni Nastro Azzurro è passata dalla bottiglia da 66 a quella da 62 centilitri.
Più curioso è il caso di Barilla, con una linea di pasta trafilata al bronzo venduta nella confezione da 400 grammi: è più «corposa e avvolgente, con una texture più spessa e robusta», e per questo se ne suggeriscono 80 grammi a porzione, ha spiegato l’azienda. Resta il fatto che con il formato tradizionale si poteva pranzare in sei, mentre con quello nuovo al massimo in cinque.
Verso nuove regole?
Sul tema è intervenuta anche l’Autorità Antitrust, aprendo un’istruttoria per verificare che le strategie dei produttori non costituissero una pratica scorretta e non violassero il Codice del consumo. L’Agcm ha poi archiviato la procedura, considerata anche «la diffusa consapevolezza sul fenomeno». La shrinkflation non è una truffa perché il peso indicato sulla confezione coincide con quello realmente venduto.
«Il problema non è la pratica in sé, che rientra tra le decisioni aziendali legittime, ma la sua opacità: le informazioni sull’etichetta non sempre sono leggibili e confrontabili in modo immediato. Per questo la nostra proposta al parlamento prevede l’obbligo per le imprese, in caso di restringimento del formato, di renderlo evidente sulla confezione per un periodo di sei mesi», aggiunge Dona.
Intanto, se in Italia si sottovaluta il tema facendo leva sulla “consapevolezza” degli utenti, in altre parti del mondo il legislatore interviene. Negli Usa la shrinkflation è stata denunciata da Joe Biden al Super Bowl di febbraio. «È un modo per le aziende per fare profitto sperando che non ve ne accorgiate. Ma gli americani sono stanchi di essere presi in giro». E così un gruppo di senatori democratici ha avanzato una proposta di legge per regolamentare il problema.
In Francia, invece, sarà in vigore da luglio la norma che obbliga i brand a etichettare i prodotti decurtati. «Lo stato non vuole voltarsi dall’altra parte per riempire le tasche dei giganti dell’industria alimentare», ha detto il ministro Bruno Le Maire. Catene come Carrefour e Intermarché, del resto, hanno già adottato un modello trasparente: l’anno scorso sugli scaffali sono apparsi dei cartelli che indicavano i prodotti dei marchi “ristretti”.
L’ombra della speculazione
Dal punto di vista delle aziende, i motivi alla base della sgrammatura sono principalmente due. Le grandi marche possono ridurre il contenuto, senza modificare il prezzo, per stimolare un maggior consumo e far crescere il fatturato. È ad esempio la ragione per cui le bottiglie di vino sono da 75 centilitri anziché da litro: ricerche di mercato hanno dimostrato che così facendo si incentiva l’acquisto di una seconda bottiglia.
Oppure lo possono fare per contrastare il costo crescente delle materie prime; per affrontare l’inflazione e non dare al cliente l’idea di un minor potere d’acquisto. «Anche se può sembrare un tentativo di aggirare il consumatore, l’obiettivo è non colpirlo con un aumento di prezzo visibile che lo infastidirebbe di più», ha notato Claudio Chiacchierini, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università Bicocca.
Questa ragione poteva valere negli scorsi anni, con un’inflazione elevata. Ma regge molto meno negli ultimi mesi. Con l’aumento dei costi di produzione legato alla carenza di materie prime (a causa del Covid) e ai rincari dell’energia (per la guerra in Ucraina) le imprese hanno trasferito sui consumatori parte degli aumenti. Ma oggi l’inflazione ha rallentato – in Italia è passata dal 5,7 per cento del 2023 allo 0,9 attuale. Le aziende hanno un incentivo in meno alla sgrammatura, che però è ancora tra noi.
Perché i brand non tornano indietro, e anzi insistono con questa tecnica? «È colpa della greedflation, l’inflazione “da avidità”. Anche se materie prime e bollette sono in ribasso, molte imprese non abbassano i prezzi per aumentare i profitti. Contano sul fatto che i clienti non andranno persi perché hanno metabolizzato i rincari», dice ancora Dona. Tutto ciò grazie alla mancanza di una vera concorrenza, che frenerebbe possibili accordi collusivi.
A entrare in gioco, quindi, è la viscosità dei prezzi, cioè la loro resistenza a crescere e diminuire al variare di altri fattori. Una dinamica che si presenta in modo diverso a seconda dei casi (come mostra anche il mercato petrolifero): un aumento dei costi di produzione ricade direttamente sul consumatore, ma se i costi si riducono il suo vantaggio è esiguo. Da una crescita dei prezzi non si torna indietro subito, nemmeno tra le corsie del supermercato di fiducia.
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