- Nella totale assenza di progetti politici, i sindacati hanno iniziato a parlare il linguaggio ambientalista molto più che i partiti.
- Dialogano con i movimenti, imparano con gli esperti e studiano con le università i costi sociali della transzione ecologica. Che rischia di diventare una enorme e unica vertenza
- Senza interventi il rischio è doppio. Se i costi sociali saranno troppo alti, la transizione ecologica può essere bloccata” dice Simone D’Alessandro è professore di Economia all’Università di Pisa. Università e sindacati stanno studiando costi della transizione ecologica e la politica che manca.
Alla lotta al cambiamento climatico servono i corpi intermedi, dice Emanuele Arika Genovese, del coordinamento dei Fridays for Future, cioè il movimento che oggi più rappresenta le lotte giovanili per l’ambiente. Per governare il cambiamento servono luoghi della mobilitazione e quindi l’ambientalismo dei Fridays si muove in direzione ostinata e contraria rispetto al martellamento della politica sulla disintermediazione. Ed è anche per questo che il movimento ambientalista ha costruito un rapporto più consolidato con sindacati, anche se complesso e con le sue tensioni, piuttosto che con i partiti.
È una svolta nata in assenza di una politica industriale e passata sotto traccia ma che, nel paese in cui sia gli industriali che i governi tirano il freno a mano sui nodi più decisivi del processo di transizione e in cui per molti anni le regioni del lavoro e quelle dell’ambiente hanno marciato le une contro le altre, è estremamente significativa.
Congressi e scioperi
Agli inizi per i Fridays il dialogo con alcune organizzazioni sindacali, come la Federazione dei lavoratori della conoscenza della Cgil, è stata alimentata attraverso la presenza nel movimenti di rappresentanti dei sindacati studenteschi più vicini alla Cgil, ma ora le cose sono ben diverse. I Fridays sono cambiati e cresciuti in maniera autonoma e i rapporti col sindacato anche, allargandosi ai metalmeccanici. Non proprio la categoria più semplice da convincere, considerato quanto la transizione per l’automotive possa era dirompente.
La Fiom ha aderito a diversi scioperi sul clima e anche quest’anno inviterà un rappresentante dei Fridays al congresso. Il dialogo non è semplice: «Con i metalmeccanici ci sono molte frizioni, ma certo non è il conflitto totale che abbiamo con i i chimici», dice Genovese. Con la Cgil nel suo complesso i rapporti si sono allentati all’inizio del 2022, anche sulla scia della vertenza Gkn, la fabbrica di Campi di Bisenzio, i cui lavoratori in lotta contro la delocalizzazione stanno mettendo in piedi un piano di transizione ecologica autogestito e dal basso.
Un modello radicale sostenuto dai Fridays e che è servito al movimento ambientalista a entrare in contatto con altri sindacati: alla manifestazione dei Fridays di Napoli che aveva come parola d’ordine anche la lotta dei lavoratori, per esempio hanno aderito sindacati di base, come Usb e Cobas. «A livello europeo i sindacati hanno idee, centri studi, position paper molto più avanzati delle organizzazioni italiane», dice Genovese. Un punto di scontro è sull’abbaondono totale dei combustibili fossili, eppure e i canali restano molto più aperti con le organizzazioni dei lavoratori che coi partiti.
«I Fridays rappresentano una linea di sensibilità generazionale dal punto di vista ambientalista che prima non c’era, e meno che male che ci sono», dice Giorgio Airaudo, «ma per imparare come risolvere i problemi abbiamo bisogno di esperti: come quelli del Kyoto club sulla produzione di energia. Anche Greta si appoggia a loro». A Torino, ogni due anni i rappresentanti dei lavorai discutono su esempi concreti per coniugare compatibilità ambientale e transizione sociale. Qui il sindacato ha sottoscritto un protocollo clima- lavoro con il Kyoto club e con la ong Transport and environment.
Al congresso della Cgil Piemonte che si è tenuto a febbraio hanno invitato la referente italiana dell’associazione e Veronica Aneris per discutere dell’uscita dai motori diesel dal 2030, e come gestire la conseguente perdita di posti di lavoro nel comparto dei motori termici. «Servono nuovi investimenti in nuovi prodotti ma anche risposte alle nuove domande sociali e poi ci sono occasioni che senza programmazione rischiano di essere perse», dice Airaudo.
Occasioni da non perdere
Il sindacalista snocciola occasioni come se fossero cose ovvie, che uno che sta sul campo non può non conoscere. La pandemia per esempio è stata anche un’occasione: le lavorazioni dei filati trasferite in Asia sono tornate nei distretti storici di Biella e del novarese, ma non hanno tecnici qualificati e ora con la crisi energetica hanno meno convenienza a produrre in Europa. In provincia di Alessandria nel distretto orafo e argentiero di Valenza, tra anni fa si è insediata niente meno che Bulgari, gruppo Lvmh, con 3 miladipendenti: non hanno personale perché la scuola orafo argentiera ha chiuso. Tutti questi casi, dimostrano secondo Airaudo, che c’è bisogno di elementi di programmazione.
Per le imprese di fronte agli sconvolgimenti c’è una occasione straordinaria, e la crisi climatica lo è anche se con tempi più dilatati rispetto a un’epidemia.
Se qualcuno avesse immaginato che le produzioni tessili rientravano allora sarebbe stato chiaro anche che c’erano figure professionali trasferire. E se vale nel piccolo figuriamoci in comparti come l’automotive - chi produrrà per esempio le matasse di cavi elettrici per le auto a bassa emissioni - o su filiere di microchip. L’Intel ha deciso di insediare la sua fabbrica più importante, quella che fa il taglio dei microprocessori in Germania, da noi invece si discute di insediarele produzioni a più basso valore aggiunto.
«In Germania ci sono uffici pubblici ad hoc che spiegano alle imprese quali politiche pubbliche sono state pensate per chi crea impresa e spazi già attrezzati per i nuovi impianti produttivi», spiega con una buona dose di invidia il segretario della Cgil Piemonte. Nel settore automobilistico non ci saranno più i pistoni e i cilindri del motore, ma servirà rottamare e riciclare vetture che saranno un miniera di risorse e di materiali nobili. Serviranno più periti chimici da inserire nella produzione. E vanno inventate le macchine per smontare le nuove macchine. Una Renault elettrica dopo otto nove anni è esausta.
Con Stellantis già alcune occasioni sono state perse: le nuove microcar vengono prodotte in Marocco, ci sarà la fabbrica di batterie a Termoli e allora i sindacatisono stati i primi a insistere con l’amministratore delegato Carlos Tavares per riconvertire parte dello storico stabilimento di Mirafiori con i suoi 3milioni di metri quadri a disposizione in un centro per il riciclo delle batterie e in generale di tutte le parti dell’autovettura elettrica. Al di là degli annunci copiosi, le trattative del gruppo con la controparte pubblica per finalizzare un progetto sono ancora in corso.
« La novità qual è? Che l’ambientalismo e il lavoro possono essere alleati alla condizione di immaginare futuro con un intervento pubblico e leve finanziarie», argomenta Airaudo. «Prevedere la cassa integrazione non è la risposta, ma invece lo è la formazione, e quindi per esempio decidere che una parte dell’orario di lavoro va destinato alla formazione di nuove competenze.
Queste scelte obbligate derivano dalle dinamiche del capitalismo perché i produttori di auto stanno già investendo nell’auto elettrica, i progetti li devi fare cinque anni prima, e noi stiamo già comprando le ultime auto termiche».
Gli esperti di Transport and Environment dicono che sulla carta il pareggio dei posti di lavoro, tra persi e guadagnati può essere raggiunto tra 2035 e 2040. Ma senza strategia pubblica i risch ci sono e non sono pochi.
I costi sociali
«Il rischio è quello che i costi sociali diventino talmente alti che la transizione ecologica venga bloccata»,. Simone D’Alessandro è professore di Economia all’Università di Pisa e fa parte del progetto Ecoesione che in collaborazione con il ministero della Transizione ecologica, analizza i possibili sviluppi negativi dell’impegno europeo verso la neutralità di emissioni di CO2, previsto per il 2050. Il dipartimento di D’Alessandro sta analizzando alcuni casi di conflitto economico ambientale in Toscana, uno di questi è la Vitesco: multinazionale tedesca che produce iniettori, oltremille addetti tra cui 139 precari che secondo i piani della casa madre dovrà ridurre la propria forza lavoro di due terzi.
L’università assieme a chi si occupa di risorse umane nell’azienda sta provando a immaginare una riconversione per mantenere i posti di lavoro attuali. «Non è facile dialogare con una multinazionale - ammette D’Alessandro - e sappiamo che anche in Germania hanno una situazione simile con 800 esuberi». Nel 2019 la Vitesco ha presentato il piano “Transformation” un bel nome per raccontare il passaggio dalla produzione da motori endotermici a motori elettrici. Un bel nome che sul territorio significa 750 esuberi senza contare il 139 precari i cui contratti non verranno rinnovati.
«Anche se la riconversione all’elettrico in sé è una buona notizia - spiega D’Alessandro - il problema è che il motore elettrico è molto più semplice - spiega D’Alessandro - ha bisogno di meno manodopera e meno ore di lavoro». Eppure si tratta di questioni che la classe politica e dirigente avrebbe potuto prevedere. «Manca una visione d’insieme - continua il ricercatore - e quindi ci si attiva per ogni singola crisi industriale, ma così non funziona. Attualmente l’unica strategia sembra essere quella di trovare ammortizzatori sociali per portare i lavoratori in esubero verso la pensione, ma quello di cui c’è bisogno sono investimenti nell’industria green e reddito di emergenza per i lavoratori che vorranno e dovranno riqualificarsi con le nuove competenze«.
La componentistica è uno dei settori più a rischio. Un’eccellenza in Italia dicono dalla Uil, che era riuscita a riprendersi dal ridimensionamento di Fiat/Stellantis diventando uno dei principali esportatori in Germania, ma adesso la crisi sembra irreversibile: un terzo dei tavoli di crisi aperti è sulla componentistica. In uno studio condotto da Uilm, Fim e Fiom, assieme a Finmeccanica si prevede la perdita di 73 mila posti di lavoro dal 2025 al 2030 in un settore che attualmente ne occupa 160 mila.
Solo in parte potranno essere compensati con i cosiddetti ‘green jobs’. Sempre nello stesso studio si riportano stime europee in cui per mezzo milione di occupati nella componentistica, ne arriverebbero 226 mila di nuovi lavori nella conversione energetica, con una perdita netta di 275 mila posti di lavoro.
Un’unica grande vertenza
L’altro problema evidenziato dal team scientifico dell’università di Pisa è la doppia esclusione. «L’auto elettrica ha un valore aggiunto più basso, quindi le case automobilistiche si stanno orientando verso le fasce medio alte, con auto che sotto i trentamila euro non si trovano. Allo stesso modo le infrastrutture tenderanno ad arrivare prima nelle zone centrali delle città creando ancora più diseguaglianze con chi è escluso dai vantaggi della conversione green a tutti i livelli, perdendo il lavoro, perdendo la macchina e perdendo l’aria pulita».
«Un problema molto sottovalutato» dicono dalla Uil, che ha aderito assieme a Cgil e Cisl alla piattaforma “Una giusta transizione per il lavoro” e con Cisl e Confindustria ha lavorato a un documento analogo su “Lavoro ed Energia”. Secondo la Uil le questioni sono tante,: dal fatto che la corsa alle rinnovabili in Europa è stata sostenuta con miliardi di euro dei consumatori, ma solo dal punto di vista della produzione di energia e non dal punto di vista industriale e tecnologico o da quello della formazione delle competenze.
Al 2019, per esempio, solo il Politecnico di Torino aveva un master che si occupava dello sviluppo di batterie per auto. L’Europa ha in proporzione pochi impianti per la produzione di energia rinnovabile n Europa, solo recentemente anche in seguito allo shock economico e logistico del Covid si sta cambiando rotta. Ma rimangono aperte le questioni delle aziende energivore: cartiere, acciaierie, industrie del vetro e delle piastrelle, ma anche i cementifici. Il costo per la riconversione toccherà anche questi settori. La Uil proponetra le altre cose nche un reddito di emergenza e formazione: nei possimi mesi la transizione ecologica diventerà un’unica grande vertenza.
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