- Il decreto del Primo Maggio non sarà ricordato per il più importante taglio delle tasse degli ultimi decenni come i provvedimenti che lo hanno preceduto. Si inserisce in una tradizione di propaganda senza conseguenze pratiche. La pressione fiscale rimane la stessa di vent’anni fa. Nel caso in esame, lo sconto sui contributi previdenziali a carico della fiscalità generale, vale a dire senza incidere sui futuri diritti pensionistici, verrebbe pagato dagli stessi soggetti, i lavoratori dipendenti da cui proviene quasi tutto il gettito dell’Irpef.
- Il grande tema del lavoro è la questione salariale. Non si affronta se non si favorisce l’aumento della produttività, il che richiede aumentare la partecipazione al lavoro e migliorare le competenze della forza lavoro. E politiche che favoriscano la diminuzione dell’incidenza delle micro-imprese. Le misure su voucher e contratti a termine, che obiettivamente rendono meno costoso e più precario il lavoro, non vanno in questa direzione.
- E neanche il nuovo sistema disegnato per sostituire il reddito di cittadinanza. Definire come occupabili (e viceversa) tutti coloro che non hanno nel proprio nucleo familiare disabili, minori o over 60 è un nonsenso. L’Italia è arrivata ben ultima tra i paesi avanzati a includere nel proprio sistema di welfare uno schema di ultima istanza per il contrasto della povertà. Studiare gli insegnamenti che vengono dalla lunga esperienza degli altri paesi non è difficile ed eviterebbe di affidarsi a soluzioni estemporanee.
La misura più pubblicizzata del decreto del primo maggio è quella che ha, inopinatamente, indotto il presidente del Consiglio a vantare «il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Si tratta dello sgravio contributivo di quattro punti da luglio a dicembre che aumenta quello di due-tre punti già previsto in legge di Bilancio per l’intero anno 2023. Merita qualche riflessione.
Innanzi tutto, come hanno notato Marco Mobili e Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, rendere permanente lo sgravio costerebbe circa 10 miliardi l’anno a fronte di uno spazio di bilancio per il 2024 misurato dal Documento di economia e finanza in quasi 6 miliardi che dovrebbero comunque essere destinati a finanziare l’avvio della riforma dell’Irpef. Come sempre negli ultimi decenni la coperta delle risorse è corta.
D’altra parte, come ripetutamente notato, dopo vent’anni di propaganda sui tagli alle tasse oggi la pressione fiscale è esattamente allo stesso livello di vent’anni fa. C’è stato però un continuo pestare l’acqua nel mortaio che ha prodotto confusione e frammentazione del sistema.
Nel caso in esame, lo sconto sui contributi previdenziali a carico della fiscalità generale, vale a dire senza incidere sui futuri diritti pensionistici, verrebbe pagato dagli stessi soggetti, i lavoratori dipendenti da cui proviene quasi tutto il gettito dell’Irpef.
Nello stesso ambito fiscale, l’innalzamento del tetto sui fringe benefit (esenti dall’imposta) da 258 a 3.000 euro per i dipendenti con figli a carico, una bandierina per segnalare l’attenzione alla demografia mentre contemporaneamente appare sempre più probabile la revisione del programma asili nido del Pnrr.
Sul fisco la strada possibile per interrompere l’agitazione senza costrutto può basarsi soltanto su due elementi: spostare la tassazione dal lavoro alle rendite (revisione del catasto) e ai consumi (accorpamento delle aliquote Iva) e ridurre in misura visibile l’evasione. Altro non c’è.
Sulla politica demografica, mantenere i programmi del Pnrr per i servizi all’infanzia e canalizzare eventuali sussidi finanziari unicamente nell’assegno unico, una riforma fondamentale che separando il sostegno ai carichi familiari dal fisco ha consentito di raggiungere incapienti e lavoratori autonomi.
La questione salariale
Una grande questione, come molti hanno osservato in occasione del primo maggio, è quella salariale che non può essere affrontata se non si favorisce la crescita della produttività, il vero tallone d’Achille dell’economia italiana. Nonostante i vantati record recenti sul numero degli occupati, il tasso di partecipazione al lavoro in Italia resta tra i più bassi d’Europa, specie tra i giovani e le donne e nel Mezzogiorno, ma non solo.
Nello stesso tempo, rimane il record negativo sul numero dei laureati. Occorre aumentare la partecipazione al lavoro e migliorare le competenze della forza lavoro. E, insieme, servono politiche che favoriscano la crescita delle imprese, diminuendo l’incidenza delle micro-imprese (tra l’altro, uno dei fattori che spiega il basso numero di laureati).
Le misure su voucher e contratti a termine, che obiettivamente rendono meno costoso e più precario il lavoro, non vanno in questa direzione. E neanche il nuovo sistema disegnato per sostituire il reddito di cittadinanza.
Definire come occupabili (e viceversa) tutti coloro che non hanno nel proprio nucleo familiare disabili, minori o over 60 è un nonsenso. L’Italia è arrivata ben ultima tra i paesi avanzati a includere nel proprio sistema di welfare uno schema di ultima istanza per il contrasto della povertà. Studiare gli insegnamenti che vengono la lunga esperienza degli altri paesi non è difficile ed eviterebbe di affidarsi a soluzioni estemporanee.
Infrastrutture
La produttività aumenta anche se si investe in infrastrutture. La reazione del governo e di molti commentatori alla riforma del Patto di stabilità proposta dalla Commissione europea lamenta come essa non garantisca uno spazio speciale per la spesa per investimenti. Sarà davvero difficile sostenere questa posizione se non si riuscirà a realizzare i programmi di investimenti del Pnrr.
I segnali che vengono da quel fronte non lasciano ben sperare. Le difficoltà dipendono in parte dal funzionamento dell’amministrazione pubblica, in particolare, dalla carenza di competenze tecniche e dalla frammentazione delle stazioni appaltanti. Un tema che nessuno affronta è come mettere l’amministrazione pubblica in grado di affrontare queste sfide.
Nuove assunzioni nelle forze dell’ordine e stabilizzazione di precari sembrano essere le uniche risposte del governo. Nessuna idea di riforma di struttura. Il disegno organizzativo non cambia e gli effetti della transizione digitale sul lavoro riguardano solo il settore privato.
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