Pressioni dalla maggioranza su Giorgetti per cambiare il testo che avrebbe dovuto metter fine alle agevolazioni. Condomini e onlus spiazzati dall’ultima correzione in corsa decisa dal governo. Il ruolo delle banche
Chiudere i conti, una volta per tutte, con il Superbonus. Tra molti mal di pancia (parole sue), il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ci prova da più di un anno, da quando, il 17 febbraio del 2023, il governò varò il primo decreto destinato, almeno nelle intenzioni, a rimettere il coperchio al gigantesco vaso di Pandora delle agevolazioni per l’edilizia.
Nonostante un altro paio di interventi in corsa, la giostra dei crediti d’imposta non ha mai smesso di girare. Anzi, ha preso velocità, perché famiglie e imprese si sono affrettate a sfruttare i varchi offerti dalle nuove norme.
Una corsa durata mesi e mesi, mentre la zavorra a carico dei conti pubblici, una zavorra che incredibilmente nessuno al governo aveva previsto, diventava sempre più pesante. Fino a quando, a fine marzo, Giorgetti ha annunciato un nuovo provvedimento, quello che «mette il punto finale» alla triste storia del Superbonus.
Buco senza fondo
Davvero? Davvero possiamo tirare le somme di un provvedimento che ha messo un’ipoteca da 160 miliardi sui conti pubblici, una somma che vale, per dire, l’80 per cento del Pnrr, a cui vanno aggiunti 58 miliardi per altri sconti fiscali (bonus ristrutturazione, bonus facciate, ecobonus, sismabonus) anche questi destinati al settore dell’edilizia? Il decreto annunciato dal governo lo scorso 26 marzo è all’esame del parlamento per la conversione in legge, e Giorgetti va dicendo da giorni che non c’è spazio per correzioni, salvo piccoli aggiustamenti.
Com’era prevedibile, però, i cambiamenti in corsa che da un anno a questa parte hanno più volte modificato i contorni del provvedimento hanno creato un esercito di orfani del Superbonus.
Decine di migliaia di proprietari di casa, di aziende, di professionisti (architetti, ingegneri, geometri e molte altre categorie) che facendo affidamento in buona fede su una legge dello Stato ora si trovano all’improvviso spiazzati, a volte per questioni burocratiche in apparenza banali, per effetto dell’ultimo decreto governativo.
Non si parla di truffe, qui, che pure ammontano, secondo le stime più recenti, alla vergognosa cifra di 15 miliardi.
Condomini fuori gioco
Davanti alla commissione Finanze del Senato si succedono in questi giorni le audizioni delle categorie che lamentano danni pesantissimi e chiedono un salvagente pubblico sotto forma di nuove correzioni al testo di legge. Non è difficile prevedere che questi appelli vengano raccolti da parlamentari di maggioranza, pronti a trasformarli in emendamenti. Le elezioni europee sono vicine, e i voti degli orfani del Superbonus fanno gola.
Il decreto Giorgetti ha messo fuori gioco, per esempio, i condomini che a fine marzo non avevano ancora “sostenuto alcuna spesa documentata da fattura per lavori già effettuati”, pur avendo presentato al comune la Cilas (Comunicazione di inizio lavori asseverata) entro il 17 febbraio 2023, condizione, quest’ultima, che era richiesta dal decreto di un anno fa per godere ancora dell’agevolazione fiscale.
Questione di fatture
Non è affatto detto, infatti, che le fatture vengano emesse subito dopo l’inizio dei lavori, come da più parti è stato segnalato nelle audizioni in Senato. In molti casi l’apertura dei cantieri precede la formalizzazione dei pagamenti, senza contare gli impegni contrattuali già presi con professionisti che collaborano alle ristrutturazioni edilizie. In tutti questi casi, per effetto del decreto varato a fine marzo, i condomini non possono più cedere il credito e neppure godere dello sconto in fattura su cui avevano fatto affidamento.
Ecco perché ora molti addetti ai lavori chiedono una correzione della norma per permettere di accedere al Superbonus a chi sia in grado di dimostrare, anche con l’asseverazione di un tecnico qualificato, di aver realizzato una certa quota dei lavori deliberati, il 10 o il 20 per cento, pur in assenza di fattura.
Un’altra questione molto dibattuta riguarda il terzo settore, cioè gli enti senza scopo di lucro che operano quasi sempre nel sociale, prima ammessi e ora esclusi dalla cessione del credito e dallo sconto in fattura. Lo stesso discorso vale per i lavori programmati dagli Iacp, l’edilizia popolare.
Partiti in pressing
Una delle rare eccezioni allo stop già previste nel decreto riguarda le aree dei cosiddetti crateri sismici (Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, con un tetto di spesa di 400 milioni), ma si sta pensando di allargare la deroga anche ad altre zone colpite da eventi catastrofici negli ultimi anni, come l’Emilia, il Molise e la zona dell’Etna.
Fin qui le richieste. Il problema, come sempre, sono le risorse disponibili. Giorgetti gioca in difesa, ma il pressing da parte di ampi settori della maggioranza potrebbe alla fine avere successo.
Il governo ha fretta di chiudere i conti con il Superbonus, e proprio per evitare polemiche e proteste potrebbe alla fine concedere qualche centinaio di milioni in più, somma che comunque lascerebbe scoperta una vasta platea di scontenti.
Il business delle banche
Dall’altra parte della barricata troviamo invece le banche, che grazie al Superbonus hanno ampliato il loro già ricco giro d’affari, visto che in base alla legge possono comprare i crediti d’imposta ceduti da privati e imprese. In pratica, negli ultimi due anni è successo che una parte dei crediti acquistati sono stati utilizzati dagli istituti per compensare le proprie imposte, oppure sono stati ceduti a terzi, ovviamente guadagnandoci.
Così si scopre che, in base ai conti 2023 da poco pubblicati, Intesa ha acquistato crediti per 27 miliardi, di cui 20 miliardi ancora in bilancio a fine anno. UniCredit dichiara 5,6 miliardi, BancoBpm si attesta a 3,2 miliardi, mentre il Monte dei Paschi arriva a 1,8 miliardi e Bper a 5 miliardi. Manca il dato di Poste italiane, pure molto attive in questo campo, ma in totale si può dire che le cinque principali banche italiane hanno assorbito più di 40 miliardi di crediti. Affari da Superbonus.
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