- I beneficiari totali del reddito di cittadinanza sono stati circa 920mila di cui solo 86mila continuerebbero a beneficiare dell’assegno con la riforma ipotizzata dal governo.
- Di quegli 835mila beneficiari che perderebbero l’assegno 173mila già lavorano. Ripetiamo: il 19 per cento dei beneficiari lavora, ma con un reddito misero.
- Nell’ultimo rapporto dell’Inps si legge che il reddito sembra avere avuto un effetto positivo sulla natalità, probabilmente perché ha reso meno insicure le prospettive economiche familiari.
Sembra che l’intervento principale del nuovo governo sul reddito di cittadinanza sarà di riservarlo a coloro che, oltre a essere poveri, si trovano nell’impossibilità di lavorare. La logica sembra chiara: se chi è in condizioni di lavorare può permettersi di non farlo, la responsabilità è del reddito di cittadinanza.
Così facendo, si può forse aggiungere, ci si sottrae al dovere sociale di lavorare e lo si fa gravando sul bilancio dello stato, cioè su tutti noi o almeno quelli di noi che pagano le tasse.
Che fondamento ha la tesi secondo cui, alla fine, a un percettore del reddito in meno corrisponderà un occupato in più? E quale sarà il reddito (e la qualità) di quell’occupazione?
I dati ci dicono che molti non troveranno un lavoro che consenta una vita non miserabile: sono quelli sulla diffusione dei working poor, quelli sullo squilibrio tra posti di lavoro vacanti e persone in cerca di occupazione e anche quelli sul reddito di cittadinanza.
Un quinto già lavora
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Dall’ultima nota diffusa dall’Anpal, riferita a coloro che hanno percepito la mensilità di giugno del reddito di cittadinanza, apprendiamo che sono stati indirizzati ai servizi per il lavoro perché occupabili sulla carta, 920 mila beneficiari, meno del 40 per cento dei beneficiari totali, che di questi solo 86mila continuerebbero a beneficiare dell’assegno con la riforma ipotizzata dal governo, cosicché i restanti 835mila circa lo perderebbero. Apprendiamo, soprattutto, che circa 173mila di quegli 835mila beneficiari lavorano. Ripetiamo: il 19 per cento dei beneficiari indirizzati ai servizi per l’impiego lavora. Alcuni di essi lavoravano prima di percepirlo, altri hanno trovato lavoro mentre lo percepivano (in che proporzione non è possibile saperlo). Inoltre, non pochi di essi sono titolari di contratto a tempo indeterminato.
Redditi miseri
Tutto ciò dovrebbe far riflettere. Anzitutto il lavoro non è incompatibile con il reddito di cittadinanza e la direzione di marcia dovrebbe essere di agevolare questa compatibilità. Inoltre, quel sostegno spesso serve per integrare un misero reddito da lavoro in modo da superare la soglia della vita miserabile. E ciò, rispetto alla proposta di riforma, spinge a chiedersi se la povertà o la vita miserabile siano tali solo per chi non è in grado di lavorare e non anche per chi lavora in certe condizioni. Naturalmente possono darsi casi in cui il reddito di cittadinanza scoraggia la ricerca del lavoro, ma se la situazione è in buona misura quella che i dati descrivono la scelta è tra una società che si fa carico di alcuni, pochi, che rinunciano a vivere una vita miserabile lavorando per vivere una vita forse appena un po’ meno miserabile non lavorando e una società che, con l’obiettivo di far lavorare tutti, costringe molti a una vita miserabile: quelli che non trovano lavoro e quelli che lo trovano ma non accedono a una vita dignitosa. Permettere ad alcuni di rifiutare lavori poco dignitosi non serve anche a dare incentivi a creare un maggior numero di lavori dignitosi e, quindi, ad avere in futuro meno necessità di un reddito di cittadinanza?
Rispondere a queste domande significa toccare questioni cruciali per le disuguaglianze e la giustizia sociale, questioni che dovrebbero occupare un posto di rilievo nella risposta al frequente interrogativo cosa sia di sinistra e cosa sia di destra.
Il reddito di cittadinanza può essere migliorato sotto molti aspetti ma ha reso meno miserabile la vita materiale di molte persone in stato di bisogno, forse al prezzo di un temporaneo immeritato beneficio per qualcuno che non era in quello stato, e ora sappiamo che potrebbe anche avere reso, sotto altri aspetti, l’esistenza di alcuni più vicina a quella desiderata.
La libertà di avere figli
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Nell’ultimo rapporto dell’Inps si legge che il reddito sembra avere avuto un effetto positivo sulla natalità, probabilmente perché, al di là della sua limitata entità, ha reso meno insicure le prospettive economiche familiari. Inutile sottolineare quanto tutto ciò sia importante in un paese con i problemi di denatalità come il nostro e quindi quanto dovrebbe pesare nella valutazione della misura che lo produce. Sappiamo che i giovani desiderano più figli di quelli che riescono ad avere e, dunque, ridurre questo gap equivale a accrescere la libertà di scelta delle persone. La libertà, un tema che a destra si declina forse diversamente che a sinistra. E non sarebbe male chiedersi se è più importante difendere la dignità e la libertà di molti o rincorrere, con il rischio concreto di non riuscire ad acciuffarli, i pochi che vogliono sottrarsi al dovere di lavorare.
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