La legge delega è stata approvata dal parlamento giusto un anno fa. Ora il governo è a metà percorso, convinto di aver rivisto per buona parte il sistema fiscale italiano. Il ddl varato ad agosto 2023 stabiliva che palazzo Chigi adottasse entro due anni i decreti legislativi «per la revisione del sistema tributario». Ad oggi sono undici i testi già pubblicati in Gazzetta ufficiale, mentre altri tre sono sottoposti all’esame delle commissioni parlamentari.

«Sarà una riforma strutturale che l’Italia aspettava da 50 anni: meno tasse su famiglie e imprese, un fisco più giusto e procedimenti più semplici», aveva detto un anno fa la premier Giorgia Meloni. «Abbiamo ridotto le sanzioni, introdotto una disciplina per la global minimum tax e adottato più garanzie per il contribuente. Noi vogliamo un fisco dialogante che non abbassi la guardia con gli evasori», ha rivendicato pochi giorni fa il viceministro dell’Economia Maurizio Leo.

Eppure la riforma ha attirato molte critiche, fin dalla presentazione della legge delega. «Non c’è un disegno razionale dietro queste misure, che non sono eque perché favoriscono le classi abbienti dimenticando quelle povere – ha scritto su Domani l’economista Alfredo Roma – La riforma avvantaggia imprenditori, commercianti e professionisti, da cui dipende la maggior parte dell’evasione».

In tutto ammonta a 83 miliardi di euro la stima delle tasse non pagate nel 2021 (ultimo dato disponibile). Dal 2018 la cifra si sarebbe ridotta di quasi 20 miliardi: un miglioramento imputabile a misure come lo split payment (il versamento dell’Iva direttamente dal cliente) e la fatturazione elettronica. L’evasione fiscale e contributiva è così scesa dai 100,4 miliardi del 2019 agli 83,6 miliardi del 2021. E il calo è ben visibile anche in percentuale di quanto dovuto al fisco.

La revisione dell’Irpef

Ma quali sono i provvedimenti presi dal governo per riformare il sistema tributario? Quali le categorie avvantaggiate e chi invece ne esce penalizzato? Tra i primi decreti attuativi c’è stato quello sull’Irpef, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 30 dicembre scorso. La revisione, valida soltanto per il 2024, prevede la riduzione degli scaglioni da quattro a tre e l’aumento delle detrazioni per i redditi più bassi.

Se il passaggio dal 2021 al 2022 aveva comportato il taglio da cinque a quattro aliquote, da gennaio si è passati a tre sole aliquote (con effetti sulla dichiarazione dei redditi 2025). I primi due scaglioni di imponibile si sono fusi in uno (da zero a 28mila euro): il vecchio secondo scaglione è confluito nel primo, con annesso cambio di aliquota verso il basso, dal 25 al 23 per cento. Il terzo e quarto scaglione sono invece rimasti uguali.

Sempre per il 2024, si è poi innalzata da 1.880 a 1.955 euro la detrazione prevista per i titolari di redditi da lavoro dipendente e di alcuni redditi assimilati fino a 15mila euro. In questo modo si è ampliata fino a 8.500 euro la soglia di no tax area prevista per i lavoratori dipendenti, che è stata parificata a quella già vigente per i pensionati.

«La riforma riduce lievemente il carico fiscale sui contribuenti, soprattutto per quelli nella fascia di reddito tra i 15mila e i 28mila euro. Ma con il passaggio a tre aliquote si rischia di comprimere la progressività del sistema», ha notato l’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica. Inoltre la transitorietà dell’intervento – se non sarà rifinanziato scadrà il 31 dicembre – non va nella direzione di ridare fiducia ai contribuenti e di sostenere, tramite l’aumento del reddito disponibile, i consumi delle famiglie.

La revisione dell’Irpef ha comunque inaugurato un percorso che, stando al programma di governo, porterà all’introduzione della flat tax per tutti. Un obiettivo molto controverso, per il quale in ogni caso si procederà per gradi. Il primo impegno preso da Leo riguarda un’altra diminuzione delle aliquote Irpef, possibile solo se i primi passi della riforma fiscale porteranno a maggiori entrate. Per questo gli occhi sono puntati sugli incassi del concordato biennale per le partite Iva.

Il concordato preventivo

La disciplina del concordato preventivo biennale è contenuta nel decreto legislativo sull’accertamento, in vigore dal 22 febbraio e modificato pochi giorni fa dal decreto correttivo del 5 agosto. La misura, che si applica alle tasse da pagare nel 2024 e nel 2025, si rivolge a una platea di oltre quattro milioni di contribuenti, a cui consente di bloccare per due anni la base imponibile su cui pagare le imposte.

Il concordato si basa su un accordo tra lo stato e i lavoratori autonomi (o piccole imprese): partendo dai ricavi passati e da altri dati contenuti nelle banche dati pubbliche, il fisco propone loro un importo fisso da pagare per i successivi due anni, sulla base di una simulazione del reddito futuro. In cambio il contribuente è al riparo da accertamenti fiscali, salvo per fatti gravi che implicano la decadenza dal concordato. Se non è un azzeramento dei controlli, poco ci manca.

Con questa misura si intende «dare al fisco un volto più amico e instaurare un rapporto collaborativo tra Agenzia delle entrate e contribuente». Per questo Leo ha respinto la tesi secondo cui il concordato sarebbe un nuovo condono. Per giustificarlo ha ricordato che, ad oggi, solo il 5 per cento delle partite Iva riceve un controllo annuale: dato che gli evasori parziali non sono intercettati, tanto vale indurli a far «gradualmente emergere il sommerso».

È proprio questa logica, secondo le opposizioni, a rappresentare «una resa nei confronti dell’evasione». Per Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Pd, «il governo ammette che l’Agenzia non ha capacità sufficiente per fare i controlli, e allora prende per buono ciò che gli evasori dichiarano e chiede loro qualcosa in più». Così facendo, hanno lamentato anche M5s e Cgil, si cristallizza l’evasione delle partite Iva, spingendo all’inaffidabilità pure chi è affidabile.

Lo sconto sulle imposte

Ma finora le cose non sono andate come previsto. Il governo ha riscontrato un numero di adesioni molto al di sotto delle aspettative e ha optato per il varo di un decreto correttivo. Il nuovo concordato biennale sarà un po’ più conveniente, anche in risposta ai rilievi della commissione Finanze del Senato, preoccupata per la scarsa appetibilità del provvedimento.

Per favorire la sottoscrizione del patto con il fisco si è deciso un forte sconto sulle imposte. Sul maggior reddito da dichiarare richiesto dall’Agenzia per aderire al concordato, infatti, si pagherà una flat tax tra il 10 e il 15 per cento invece dell’aliquota marginale Irpef. Inoltre, viene abbassato a 5mila euro il debito tributario pregresso che impedisce l’accesso al regime concordatario.

Anche con i correttivi, però, restano dubbi sull’esito della misura. «Con il nuovo decreto si rendono gli sconti ancora più allettanti, quasi da hard discount del fisco. Il sistema potrà funzionare se prevederà controlli seri e capillari», ha notato Ferruccio De Bortoli. In più, il concordato pone problemi dal punto di vista dell’equità verticale (la progressività): la tassazione sostitutiva ha un carattere regressivo perché gli incrementi di reddito sono colpiti meno delle altre soglie.

Ma esiste anche una questione di equità orizzontale (che prevede la stessa imposta a parità di reddito), dato che «la tassazione sostitutiva è così generosa da allargare il divario tra soggetti con la stessa capacità contributiva», ha scritto l’editorialista del Corriere. Per evitare il fallimento della riforma si è insomma creata una disparità tra gli stessi lavoratori autonomi.

Flat tax per la partite Iva

La tassa piatta applicata al concordato ci riporta alla mente la flat tax delle partite Iva, il regime forfettario al 15 per cento introdotto da Matteo Renzi nel 2014. La manovra di Bilancio di due anni fa, la prima del governo Meloni, ha esteso da 65mila a 85mila euro la soglia di ricavi entro cui lavoratori autonomi, professionisti e imprese possono optare per il regime agevolato, sfuggendo alla progressività dell’Irpef.

E soprattutto ha introdotto la flat tax incrementale, riservata alle partite Iva non forfettarie. La norma, che ha effetti sull’anno fiscale 2023, prevede l’applicazione di un’imposta ad aliquota fissa del 15 per cento (sostitutiva dell’Irpef) calcolata sul reddito in eccedenza «rispetto al valore più elevato riscontrato nel triennio precedente». A questi fini, la base imponibile non può essere di importo superiore ai 40mila euro.

L’agevolazione è conveniente per le partite Iva che si avvicinano a questo tetto. «Quale sia l’equità della misura, che avvantaggia i lavoratori autonomi relativamente benestanti e fortunati, è difficile da spiegare. È un provvedimento senza razionalità economica che non avrà effetti sull’emersione dell’imponibile, essendo limitato agli incrementi di reddito», hanno scritto Silvia Giannini e Simone Pellegrino su lavoce.info.

Addio al redditometro

Il decreto correttivo del 5 agosto è intervenuto anche sul nuovo accertamento sintetico, ponendo fine alle tensioni nella maggioranza sull’uso del redditometro. A inizio maggio il viceministro Leo si era mosso per riattivare lo strumento (sospeso nel 2018 dal governo Conte I) a cui il centrodestra si è sempre opposto, salvo dover fare dietrofront dopo le critiche di Forza Italia. E dopo l’intervento della premier Meloni.

I contribuenti saranno ancora soggetti a controlli, da parte dell’Agenzia delle entrate, attraverso il software che permette di controllare di quanto il reddito dichiarato si discosti da quello calcolato sugli indici di spesa personali (acquisto di una casa, mutuo, visite mediche). Ora però non si chiama più redditometro ma evasometro e cambia la soglia di scostamento prevista perché scattino i controlli.

L’accertamento del fisco sarà infatti possibile solo se il reddito “accertabile” grazie ai dati sul tenore di vita del contribuente supera del 20 per cento quello dichiarato (come è sempre stato) e se supera di dieci volte l’assegno sociale (cioè sfora i 70mila euro). Il contribuente potrà poi difendersi dimostrando che le spese sono state sostenute con redditi diversi da quelli del periodo d’imposta.

È evidente l’intento di ridurre al minimo il numero dei falsi positivi e di indirizzare i controlli su casi in cui c’è un’evasione elevata. «Il vecchio e odioso redditometro è stato sostituito dal “ladrometro”, uno strumento che aiuterà a scoprire i grandi evasori che possiedono beni di lusso senza pagare le tasse», ha detto il deputato di Fratelli d’Italia Francesco Filini.

Di fatto però si indebolisce un meccanismo prezioso (per quanto perfettibile) e utile a contrastare sul serio evasione ed elusione. «I partiti di destra fanno a gara a chi è più generoso a brandire chi evade con il più ipocrita dei messaggi: la retorica della guerra ai maxi evasori. Ma i dati evidenziano che il problema si annida soprattutto nella sterminata platea dei piccoli evasori», ha scritto Franco Monaco su questo giornale.

La dilazione dei debiti

Come se non bastasse, a inizio agosto è stato pubblicato anche il decreto di riordino della riscossione, approvato in prima lettura in Consiglio dei ministri già l’11 marzo. Il testo introduce piani di rateizzazione più lunghi per saldare i debiti con il fisco. Il contribuente che deve pagare cifre sotto i 120mila euro e che è in una «temporanea situazione di obiettiva difficoltà» potrà chiedere, dal 2025, una rateizzazione fino a 84 rate mensili. Ad oggi, invece, il limite massimo è fissato a 72 rate.

La norma sul discarico anticipato prevede invece che le cartelle notificate da gennaio 2024 saranno cancellate se non riscosse entro cinque anni. Gli atti finiranno fuori dal “magazzino della riscossione” dell’Agenzia, ma non è un vero e proprio stralcio: i titoli di debito tornano in mano all’ente creditore (ad esempio il comune nel caso di una multa), che avrà altre opzioni per gestire la riscossione. Lo stato, inoltre, avrà massimo nove mesi per l’invio delle cartelle esattoriali.

«Il fisco amico passa anche dalla rateizzazione dei debiti, dando la possibilità ai contribuenti di pagare in tempi congrui», ha spiegato in coro il governo. Ma nei fatti è un regalo a chi non ha versato il dovuto. «Cancellare le cartelle non riscosse è un incentivo al mancato pagamento ed è ingiusto nei confronti di chi, nonostante le difficoltà, sceglie di adempiere ai suoi doveri», ha attaccato Angelo Bonelli (Alleanza verdi e sinistra).

Ma ormai c’è poco da stupirsi. Due sono le cifre del rapporto della destra con il fisco, ha notato Monaco su Domani: «la propensione a comprare il consenso di un pezzo di elettorato mettendo il costo a carico del debito pubblico e la “cultura” dello stato come bestia famelica che opprime cittadini e imprese». Per questo non vanno messe «le mani nelle tasche degli italiani», come amava dire Berlusconi, e bisogna salvare i cittadini dal temibile «pizzo di stato», per usare le parole di Meloni.

© Riproduzione riservata