L’intensità tecnologica degli investimenti in Italia è molto più bassa rispetto a Francia, Germania e Usa. Non è vero che le nostre imprese non investono. Ma la produzione è coerente con la domanda di macchinari delle stesse imprese? E se tutti i Paesi sono interessati dallo stesso fenomeno legato alla precarizzazione del lavoro, perché in Italia il fenomeno appare così gravoso? Serve indagare la struttura dei contratti collettivi nazionali
L’Italia da troppi anni non cresce e accumula ritardi rispetto alle principali economie. La crescita nazionale (a prezzi costanti 2015) tra il 2000 e il 2008 è stata più contenuta di 4 punti rispetto alla Germania, 7 punti rispetto alla Francia, e di oltre 11 punti se consideriamo gli Stati Uniti. Dopo la crisi del 2008, ogni anno l’Italia ha perso circa un punto di Pil rispetto a Francia e Germania e quasi due punti sugli Stati Uniti. Nessun governo è riuscito a modificare questa tendenza, e, soprattutto, in pochi hanno speso il tempo necessario per esaminare cosa si nasconde dietro questa decrescita.
La narrazione populista e disinformata (spesso di sinistra e sindacale) attribuisce questa minore crescita a due specifici punti: 1) le imprese non investono e quindi perdono terreno rispetto ai principali concorrenti internazionali; 2) i salari sono troppo bassi per sostenere la domanda di consumi. Le due questioni meriterebbero maggiore attenzione.
Consideriamo gli investimenti nazionali, in particolare quelli che impattano direttamente sul sistema produttivo (macchine e robot), sempre a prezzi costanti del 2015. La domanda di macchinari nazionale è, in realtà, sempre molto alta. Le imprese nazionali destinano risorse finanziarie per l’acquisto di beni capitali, qualcosa come il 7,5 per cento del Pil nel 2022, mentre erano il 7 per cento del Pil nel 2000.
Al netto della flessione legata alle incerte aspettative dopo la crisi dei debiti sovrani, le imprese nazionali hanno sempre investito molto. Germania e Stati Uniti sono sostanzialmente allineati all’Italia, ma nel 2022 l’Italia sembra avere una marcia in più. Infatti, le imprese tedesche e statunitensi destinano agli investimenti in macchinari poco meno del 7 per cento del Pil nel 2022.
In altri termini, non è vero che le imprese italiane non investono. Ma la produzione di beni capitali (macchinari) è coerente con la domanda di macchinari delle stesse imprese? La parte nobile e ad alto contenuto tecnologico dei beni capitali è in realtà per lo più importata e inglobata nella produzione di robot. Aumenta la produttività, ma solo a margine rispetto a quella di altri Paesi.
Poca ricerca
Guardiamo con maggiore attenzione il contenuto tecnologico degli investimenti. Infatti, la crescita di un paese è spesso legata alla propria capacità di incorporare e generare una autonoma ricerca e sviluppo. Uno dei principali indicatori relativi all’efficacia della ricerca interessa la cosiddetta intensità tecnologica degli investimenti, cioè il rapporto tra la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese e gli investimenti in macchinari delle stesse imprese. Non solo la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese (Berd) nazionale è inferiore rispetto a Germania, Francia e Usa, ma anche l’intensità tecnologica è molto più contenuta.
Qualche numero potrebbe tornare utile: l’intensità tecnologica degli investimenti nazionali è pari a 16,4 punti nel 2019; in Germania è pari a 35 punti; in Francia è pari a 28 punti, mentre negli Stati Uniti è pari a 33 punti. In generale, la spesa nazionale in ricerca e la potenziale innovazione tecnologica sottesa a questa spesa sembrano insufficienti a guidare la crescita economica.
Analizziamo ora la questione salariale. L’Italia registra una forte diminuzione della quota salariale sul valore aggiunto a partire dalla metà degli anni Settanta. Soltanto dal 2002 si registra una debole ripresa di tale quota, che torna sui livelli simili di inizio anni Novanta.
Sebbene in tutti i Paesi europei il salario abbia perso terreno, è difficile trovare dei valori più contenuti di quelli italiani: la quota salariale sul rispettivo valore aggiunto è pari al 50,8 per cento in Spagna, al 57,3 per cento in Germania e al 58,2 per cento in Francia. Se tutti i Paesi sono stati interessati più o meno dallo stesso fenomeno legato alla precarizzazione del lavoro, perché in Italia il fenomeno appare così gravoso? Forse è giunto il momento di indagare la struttura dei contratti collettivi nazionali di lavoro (ccnl).
Infatti, la crescita del numero dei ccnl ha ridotto sia il numero di lavoratori per ogni contratto sia il valore aggiunto sotteso alle rivendicazioni dei sindacati, in particolare di Cgil, Cisl e Uil. Attualmente tali contratti sono oltre 200, riducendo così il potere contrattuale di ciascun ccnl, sebbene Cgil, Cisl e Uil rappresentino il 96 per cento dei lavoratori coinvolti.
Forse sarebbe il caso di considerare un accorpamento dei contratti nazionali, anche per equilibrare il potere tra capitale e lavoro.
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