Tutta l’attenzione è concentrata sulla legge di Bilancio, o almeno su quei provvedimenti “identitari” del nuovo governo: mance elargite al proprio elettorato come segno di gratitudine. Si è perfino resuscitata la vecchia pratica di mascherare il deficit concedendo forti sconti a chi anticipa il pagamento delle imposte sui guadagni in conto capitale non ancora realizzati (e quindi non dovuti): cattiva abitudine, questa, anche di governi di sinistra del passato.

Naturale che provvedimenti di questo tipo abbiano grande rilievo in cronaca ma, se si guardasse un po’ più in là, si vedrebbero ostacoli e problemi irrisolti che peseranno sul futuro dell’economia italiana, riguardo i quali non si capisce quale sia la strategia del governo per affrontarli. A volte dubito che ne abbia consapevolezza.

Le imprese di stato

Un problema è il declino di tante grandi imprese di cui lo stato è azionista, teoricamente per rilanciarle, ma il cui declino è spesso esacerbato dalla presenza del socio pubblico.

Un caso è quello di Tim, in cui il nuovo governo è riuscito a peggiorare una situazione già precaria. Il declino è acclarato: quello che era una grande gruppo delle comunicazioni in Europa, ora vale solo un quinto di Telefonica, un sesto di Vodafone e un ventesimo di Deutsche Telekom.

Non c’è alcuna ragione economicamente valida per la quale in un paese ci debba essere un’unica società che gestisce l’infrastruttura della rete internet, né che questa sia a controllo pubblico; eppure questo governo (in continuità con molti precedenti) ne ha fatto un mantra, nonostante una realtà con queste caratteristiche non esista in alcun altro paese.

Anche per Tim, ormai, la società della rete è diventata la strada obbligata per deconsolidare un debito non più sostenibile, a maggior ragione coi tassi in rialzo, tagliare i costi e ridurre la competizione nell’accesso alla rete, visto che ormai nessun paese europeo regge quattro operatori in concorrenza.

La rete unica è essenziale anche per Cassa depositi e prestiti (Cdp), al fine di trovare una sistemazione per la controllata Open Fiber, di cui è noto l’ammontare del project financing (oltre 4 miliardi di debiti in scadenza nel 2025) ma non il risultato operativo che dovrebbe sostenerlo.

Nessuno però sembra avere un piano realistico per farla, questa rete unica, né sembra preoccuparsi delle conseguenze che l’operazione avrebbe sul quel che rimarrebbe di Tim. E il nuovo governo sta solo aumentando la confusione.

Tim

Bisogna prima di tutto trovare un accordo con l’azionista di maggioranza Vivendi, col 24 per cento dei diritti di voto, che ha comprato i titoli a 1,07 euro; li ha svalutati a 0,62; ha rifiutato di discutere un’offerta del fondo KKR a 0,50; e ora si ritrova il titolo a 0,20.

Presumo che Vivendi punti a recuperare almeno il prezzo di carico, ma non si capisce come possa – con lei alla guida della scissione – triplicarne il valore di mercato.

Cdp è destinata a controllare la rete unica, ma è in conflitto di interessi, essendo azionista sia di Tim sia di Open Fiber, che dovrebbero fondersi, né vuole accollarsi il debito di entrambe, che gli arriverebbe in dote con la rete unica.

Si aggiunga che Tim e Open Fiber, per far cassa, hanno già venduto a caro prezzo parte della loro rete ai due fondi KKR e Macquarie, i quali vorranno rientrare con profitto dal loro investimento.

Il nuovo governo ha bocciato il vecchio piano di fusione a cui si stava lavorando con Cdp (con quali speranze di successo non si sa) e affida la gestione dell’operazione a un proprio esperto, noto per aver proposto un’opa di stato su tutta Tim: dimenticandosi però che avrebbe un costo insensato in quanto sarebbe Vivendi a stabilirne il prezzo, essendo la sua adesione cruciale; e che Cdp non avrebbe i soldi per farlo. Incidentalmente Tim è quotata, con la maggioranza del capitale privato.

Così, l’opa futuribile del nuovo governo ha mandato il titolo sulle montagne russe: su del 43 per cento per poi sgonfiarsi del 17, quando finalmente si è capito che l’opa dell’esperto era irrealistica. Consob sta a guardare.

Ci si preoccupa solo di creare la rete unica, ma una volta fatta, già scisse le torri di trasmissione in InWit, ceduta la società di servizi alle imprese (ci sarebbe già una trattativa con un fondo), e dismesso il Brasile che non avrebbe nessun senso mantenere, Tim diventerebbe un mero venditore di accessi alla rete e di telefonia, del tutto identica agli tre concorrenti in un mercato italiano troppo piccolo e affollato: la fusione di Tim con un competitor diventerebbe inevitabile per sopravvivere.

E della vecchia e gloriosa Telecom Italia non rimarrebbe più niente. Un’altra grande azienda che si aggiunge alla lunga lista di società a partecipazione pubblica in declino, nella vana speranza di rilancio, come Saipem, Ilva, Ansaldo, Ita Airways, Rai, Anas soltanto per citare le maggiori.

Il sistema bancario

Se il declino delle grandi imprese è un ostacolo alla crescita italiana, un’altro potrebbe arrivare dal sistema bancario. Secondo l’Eba (European banking authority) le banche italiane hanno una redditività superiore alla media europea (9 per cento contro 7,9), si finanziano maggiormente con i più stabili depositi delle famiglie (35 per cento contro 29), hanno Npl in declino, anche se ancora superiori alla media (2,6 contro 1,8) e ratio patrimoniali in linea con il resto d’Europa (Tier 1 al 16,4 per cento).

Un sistema dunque che oggi appare in salute. Ma guardando avanti, emergono elementi di fragilità, specie alla luce dei timori di recessione. Già i prestiti il cui rischio è aumentato, anche se non ancora deteriorati (stage 2), sono più elevati che nel resto d’Europa (13,6 per cento contro 9,5). Inoltre a giugno c’erano ancora 127 miliardi di crediti per il sostegno alla crisi da Covid garantiti dallo stato (tra il 70 e il 90 per cento): tra i più alti in Europa e, caso unico, in crescita da inizio anno.

C’è ragione di credere che una quota di questi prestiti sia o stia diventando non performing, con la doppia conseguenza: una parte delle perdite ricadrà sulle banche, mentre Sace e Mediocredito, che hanno fornito le garanzie, non essendo in grado di gestire le posizioni deteriorate dovranno trasferirle a un’altra entità pubblica Amco, con lo stato che si farà carico delle maggior parte delle perdite sul recupero crediti.

Ma il vero rischio per le banche italiane arriva dalla scadenza nel 2023 dei 431 miliardi a tasso agevolato erogati dalla Bce (TLTRO): all’ultima rilevazione erano un quinto dei 2.116 miliardi erogati dalla banca centrale. Una percentuale probabilmente salita nel frattempo in quanto si stima che dei 743 restituiti anticipatamente da fine novembre a oggi, ben pochi siano di banche italiane.

Questi 431 miliardi dovranno essere dunque rifinanziati sul mercato a costi elevati visto l’andamento dei tassi; oppure le banche dovranno vendere parte dei 497 miliardi di titoli di stato (dato Eba) per restituire i fondi TLTRO, con la conseguenza di deprimerne i titoli di stato proprio mentre la Bce ha smesso di acquistarli; oltre ad aumentare la rischiosità media dei loro attivi.

Qualsiasi sarà la scelta operativa delle banche, l’unica certezza è che le banche saranno riluttanti ad espandere il credito il prossimo anno (alcune probabilmente lo contrarranno) e ne aumenteranno il costo proprio in concomitanza del previsto rallentamento economico.

L’impatto maggiore sarà sul credito alle imprese, (i mutui alle famiglie assorbono poco capitale di regolamentazione): a fronte dei 431 miliardi dei finanziamenti Bce le banche italiane ne hanno erogati 748 alle imprese, di cui circa la metà alle piccole e medie. La fine del TLTRO non sarà dunque indolore. E anche per Mps, un’altra partecipata dallo stato in declino, la strada della ristrutturazione sarà ancora più in salita.

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