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Il Consiglio di amministrazione di Tim ha giudicato insufficienti le offerte per la rete presentate rispettivamente da Kkr e Cdp insieme a Macquire, e ha deciso di fissare al 9 giugno la nuova scadenza per ricevere offerte migliorative e finali. Da indiscrezioni si è saputo che il Tesoro spingerebbe per un’offerta congiunta, per poter realizzare una rete unica a controllo pubblico.
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È un nuovo episodio in una “Commedia degli errori”. Il governo fa capire che l’acquisto della rete è un obiettivo imprescindibile, facendo il gioco di Vivendi, che vuole un prezzo sostanzialmente più alto di quelli fin qui offerti. Se lo stato italiano si dichiara compratore obbligato, Vivendi è però un venditore obbligato, se vuole evitare la crisi finanziaria di Tim.
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Ma l’errore più grosso è quello di di permettere che la contesa sul mercato di una grande azienda quotata sia lasciata a totale appannaggio di indiscrezioni che fanno oscillare drammaticamente il titolo.
Per la seconda volta il consiglio di amministrazione di Tim ha giudicato insufficienti le offerte per la rete presentate rispettivamente da Kkr e Cdp insieme a Macquire, e ha deciso di fissare al 9 giugno la nuova scadenza per ricevere offerte migliorative e finali, anche se di finale in questa vicenda c’è ben poco.
Da indiscrezioni si è però saputo che il Tesoro, azionista di Cdp, spingerebbe per un’offerta congiunta, per poter realizzare una rete unica a controllo pubblico da sbandierare come grande investimento strategico per il paese; anche se poi saremo gli unici ad avere lo stato monopolista in questo settore.
Il valore della rete
Il governo, facendo capire che l’acquisto della rete Tim e la sua fusione con OpenFiber sono un obiettivo imprescindibile, fa però il gioco di Vivendi, che vuole spuntare un prezzo sostanzialmente più alto di quelli fin qui offerti, almeno stando alle indiscrezioni.
Inoltre, le due offerte, rifiutate da Tim, erano molto simili come valutazione complessiva della rete, circa 20 miliardi, sempre secondo indiscrezioni. Ma se entrambi gli offerenti valutano la rete di Tim più o meno 20 miliardi, non si capisce come questa valutazione possa cambiare solo perché ora si accordano per fare un’offerta unica: il valore della rete è dato dal suo margine operativo, che non cambia.
È vero che i due offerenti hanno interesse a mettersi d’accordo invece di competere in una contesa per il controllo, ma il problema non è la valutazione complessiva della rete, quanto la divisione tra la componente di debito e capitale, nonché gli interessi confliggenti in vista della futura rete unica, di Macquire – socio di minoranza in OpenFiber a controllo Cdp – e di Kkr in FiberCop, controllata da Tim, a sua volta partecipata da Cdp. Un groviglio di interessi difficile da districare, come dimostra il fallimento di un accordo già tentato tra tutte le parti in causa l’anno scorso
La “Commedia degli errori”
Se lo stato italiano, dichiarandosi di fatto compratore obbligato, aumenta il potere negoziale dei francesi, Vivendi è però un venditore obbligato. Perché deve cedere la rete per evitare una crisi finanziaria in quanto Tim è oberata da un debito e da un costo del lavoro alla lunga insostenibili, in un settore in declino dai margini calanti, e senza le risorse per investire nel 5G.
Da questo punto di vista la rete unica a controllo pubblico è il compratore migliore su cui scaricare debito ed esuberi; perché da monopolista regolamentato a sua volta finirà col trasferire l’onere sulle spalle degli utenti grazie a tariffe generose. Alla fine, saranno gli italiani a pagare per il conto salato del grande progetto della rete unica pubblica.
Il mercato poi valuta Vivendi a forte sconto rispetto al valore intrinseco delle sue molteplici attività in quanto conglomerato con tante attività prive di sinergia tra di loro: vendere le partecipazioni che non sono al centro della proprio business – come Tim, e Mediaset – diventa imperativo per chiudere lo sconto.
Stiamo assistendo a una vera “Commedia degli errori”. C’è poi l’errore di permettere che la contesa sul mercato di una grande azienda quotata sia lasciata a totale appannaggio di indiscrezioni che fanno oscillare drammaticamente il titolo.
Tutto inizia con la notizia di una possibile opa di Kkr su Tim nel novembre 2021: indiscrezioni che fanno schizzare il titolo del 51 per cento. Da indiscrezioni si apprende poi che Vivendi rifiuta di prendere l’offerta in considerazione e Tim crolla del 53 per cento. I francesi nominano allora un nuovo amministratore delegato (che ora, secondo indiscrezioni, vogliono mandar via) col compito di scindere la rete e siglare un accordo con Cdp, Kkr e Macquire per fonderla con OpenFiber: e il titolo sale del 47 per cento.
L’accordo non si trova, ed è -20 per Tim. Solo due mesi dopo, a febbraio, nuova offerta di Kkr questa volta per la sola rete, ed è +26, anche se ci sono solo indiscrezioni su quale siano le caratteristiche dell’offerta; il cda di Tim la giudica inadeguata, -11, perché, sempre secondo indiscrezioni, la richiesta di Vivendi sarebbe molto più alta.
Arriva l’offerta alternativa di Cdp e Macquire, sul cui contenuto circolano solo indiscrezioni, +10; anche questa giudicata inadeguata perché le indiscrezioni dicono che Vivendi continua a pretendere di più, e il titolo fa -20. Infine, nella sola giornata di venerdì scorso Tim sale di oltre l’8 per cento quando si diffondono indiscrezioni sulla volontà del Tesoro di promuovere un’offerta congiunta per la rete.
Indiscrezioni e indiscrezioni
Indiscrezioni, indiscrezioni, indiscrezioni: da un anno e mezzo assistiamo alla contesa per il controllo di una grande società quotata il cui valore sul mercato viene deciso dagli investitori solo sulla base di indiscrezioni.
Per quanto le offerte non siano vincolanti, nessuno – né Consob né gli investitori istituzionali – sente il bisogno di chiedere a emittente e offerenti di rendere pubbliche le principali grandezze e caratteristiche delle loro offerte, e di confermare o smentire le indiscrezioni, visto l’impatto che hanno sui prezzi. Un errore che getta discredito sulla trasparenza della nostra Borsa.
Se alla vicenda Tim aggiungiamo un governo che usa una nuova edizione del manuale Cencelli per nominare i vertici delle principali società quotate a partecipazione pubblica, non dovrebbe sorprendere che sempre più società ricorrano al private equity per fare il delisting da Piazza Affari, spostino la sede all’estero, preferiscano quotarsi altrove, o non quotarsi. E questo tocca gli interessi di tutti, perché non c’è crescita senza un mercato dei capitali efficiente che la finanzi.
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