La cessione della rete di Tim al fondo Kkr dovrebbe porre fine alla travagliata vicenda della società. Tim riduce un debito insostenibile avendo così la possibilità di rilanciare l’azienda; Kkr acquisisce i cash flow stabili garantiti dall’infrastruttura, fornendo in prospettiva allo stato la possibilità di realizzare la rete unica a controllo pubblico, di cui si parla dal piano Rovati di quasi vent’anni fa.

Se una società scinde e cede un bene strumentale (indispensabile quindi alla sua attività) l’operazione non crea immediatamente valore per entrambe le nuove entità perché c’è solo un impatto finanziario derivante dal trasferimento di flussi di cassa tra chi cede (Tim) e chi compera (Kkr tramite FiberCop).

Operazioni come la cessione della rete sono utilizzate di frequente per ridurre indebitamenti eccessivi, in cui un’azienda vende un’attività strumentale (un immobile, impianto, torri di trasmissione, marchio) assieme al debito, riducendo così anche gli oneri per interessi, gli investimenti e i costi necessari al mantenimento dell’attività; con la cessione l’azienda perde però anche il margine operativo che l’attività generava: il venditore cede quindi all’acquirente i ricavi generati da quest’ultima, o paga un affitto per il suo utilizzo.

Così Tim, con la cessione della rete, si libera di 14 miliardi di debito, oltre agli interessi, il costo del lavoro di 20.000 persone, e gli investimenti legati allo sviluppo della rete. In cambio Tim paga 2 miliardi l’anno a FiberCop per l’accesso alla rete e lo storno di costi: una cifra che, rapportata al valore della cessione (22 miliardi) ha sollevato parecchie perplessità sulla convenienza dell’operazione per i soci di Tim.

Per capire chi ci ha guadagnato bisogna calcolare il valore attuale netto dei flussi di cassa da e verso Kkr generati con la cessione: a giudicare dal crollo del 20 per cento del titolo dall’annuncio dell’operazione sembrerebbe proprio che siano i soci di Tim ad avere avuto la peggio.

Chi ci guadagna?

La cessione della rete ha inizialmente un impatto solo finanziario perché migliora il merito creditizio di Tim (meno interessi), mentre i ricavi stabili della rete permettono a FiberCop di sostenere più facilmente un debito elevato; ma non cambia le prospettive di crescita di ricavi e margini delle due nuove entità da cui dipende, alla lunga, il loro valore.

Per capire chi ci guadagna veramente bisogna quindi guardare alle prospettive future di Tim e FiberCop. Per il Fondo americano il maggior vantaggio dell’acquisto della rete di Tim deriva dal poter creare la società unica della rete, in regime di quasi monopolio, per poi cederne il controllo allo stato, realizzando così il sogno ventennale di molti governi.

Lo prova il valore dell’earn out da 2,9 miliardi garantito a Tim (maggior pagamento differito) nel caso di fusione con OpenFiber in quanto si verrebbe a creare un monopolista capace di generare stabili cash flow e dividendi, come già avviene per gran parte delle società italiane a capitale misto pubblico-privato: un sistema che garantisce al socio privato lauti dividendi grazie a una regolamentazione generosa, e allo stato il controllo (ovvero il diritto di nominare i vertici) pur non avendone le risorse.

Che questa sia l’intenzione di Kkr lo prova la nomina alla guida di FiberCop di Massimo Sarmi e Luigi Ferraris due manager pubblici di lungo corso considerati «in sintonia» col governo. Dunque, nessuna svendita di un’attività strategica agli americani; anzi direi che Kkr sarà strumentale al passaggio nel tempo di un’attività privata alla sfera pubblica.

Le prospettive future

Che Kkr sia interessata al ritorno sull’investimento piuttosto che al controllo, da cedere allo Stato, sta nella logica stessa del Fondo che deve uscire, almeno parzialmente, dopo circa 5 anni dall’investimento per poter remunerare i propri investitori. E la fusione con OpenFiber, oltre a risolvere il problema del suo indebitamento insostenibile, permetterebbe al suo azionista di maggioranza Cdp di aumentare la partecipazione pubblica nella società unica della rete, affiancando lo stato (che potrà incrementare la sua partecipazione diretta con il conferimento di Sparkle, acquistata da Tim) e il fondo F2i, dagli interessi spesso allineati a quelli di Cdp.

Quanto a Tim la cessione della rete dimezza il suo rapporto di indebitamento (debito netto su risultato operativo) da oltre 4 volte a 2; e la liquidità aggiuntiva che si verrà a creare potrà essere destinata ai dividendi.

Ma nessun investitore valorizza un titolo con un multiplo più elevato solo perché si riduce il rapporto di indebitamento (incidentalmente quello di Tim rimane superiore a quello medio delle aziende europee di 1,8 volte) o perché pagherà un dividendo: quello che conta sono le prospettive future di Tim senza rete, che rimangono modeste.

Ricavi e margini della telefonia in Italia (Tim Consumer) trovano un limite nella crescita anemica di consumi e redditi nel nostro paese, nell’elevata concorrenza con ben quattro operatori nel mobile (tre in tutti gli Stati Uniti), e nella perdita della rete propria per attirare nuovi clienti nel mobile.

Il problema di fondo delle società telefoniche è che operano schiacciate a monte dai colossi multinazionali che forniscono la tecnologia per far funzionare le comunicazioni e i cellulari da vendere, mentre a valle devono competere in un mercato saturo, con un prodotto difficilmente differenziabile.

Quanto alla società dei servizi alle imprese (Tim enterprise) offre accesso al cloud, sicurezza informatica, soluzioni software per una nicchia di imprese italiane: ma è troppo piccola (appena 600 milioni il risultato operativo l’anno scorso) per sperare di prosperare stand alone in un mercato globale dominato dall’offerta integrata dei grandi gruppi tecnologici che coprono tutti i segmenti dell’offerta di Tim e dalle multinazionali del software per le imprese che integreranno sempre più l’intelligenza artificiale nei loro prodotti.

C’è infine il Brasile che contribuisce al valore di Tim per un terzo dei suoi ricavi, ma per il 50 per cento del margine operativo. In pratica Tim è oggi una holding composta da tre società prive di sinergie tra di loro, con metà degli utili generati in Italia e metà in Brasile. Più che dalla crescita futura, il maggior valore di Tim potrà venire dalla cessione separata delle tre società in quanto, come ogni holding, Tim vale meno della somma delle parti.

Dubito però in questo modo i soci di Tim potranno essere mai ricompensati del valore potenziale del monopolio ceduto con la rete a Kkr. Alla lunga sarà dunque Kkr a trarre i maggiori vantaggi dalla cessione.

Il capitale straniero

Con la cessione della rete non siamo ancora ai titoli di coda della lunga vicenda dell’ ex Telecom Italia, e incerto è l’assetto finale di Tim. Tempi, dunque, troppo lunghi per ristrutturare una società altamente indebitata, in un settore privo di grandi prospettive: ma più lunghi i tempi di una ristrutturazione, maggiore è la distruzione di valore e più elevati i costi sociali.

Il capitale straniero gioca nella ristrutturazione di Tim un ruolo chiave dopo tante esperienze fallimentari con gli investitori e le istituzioni finanziarie italiane: segno del nostro mercato dei capitali asfittico; della carenza di capitali di rischio (mentre abbonda il risparmio italiano parcheggiato in depositi e titoli di stato); e del nanismo dei nostri investitori, privati e istituzionali, incapaci di gestire operazioni di grandi dimensioni.

Alla fine, cresce il peso della mano pubblica nella nostra economia, finendo per privilegiare gli assetti proprietari e occupazionali rispetto alla promozione della concorrenza e gli interessi dei consumatori. Il tutto sotto l’egida di nazionalismo di facciata del governo.

Una vicenda quella di Tim che è emblematica del declino italiano, caso unico di un paese, dalla produttività e reddito pro capite stagnante da decenni: segno della sua incapacità di adeguare struttura produttiva, sistema economico, norme e istituzioni a un mondo che cambia rapidamente.

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