- La valuta della Turchia ha toccato minimi storici per una serie di undici sedute portando le sue perdite dall’inizio dell’anno al 43 per cento, con un calo del 23 per cento dall'inizio della scorsa settimana. Una débâcle.
- Il partito di opposizione Chp ha chiesto elezioni anticipate per fermare la dissennata politica monetaria di Erdoğan. L’annuncio di un vago intervento di sostegno degli Emirati Arabi Uniti in favore della Turchia ha ridato temporaneamente fiato alla lira.
- Il governo di Ankara punta sul ruolo strategico nel dossier dei rifugiati per avere il sostengo dell’Europa ma potrebbe non essere sufficiente.
La Turchia potrebbe diventare presto l’Argentina del mar Egeo se la banca centrale non decide in fretta di cambiare rotta di politica monetaria. Possibile per un paese composta da 85 milioni di abitanti, in maggioranza giovani, e con una struttura industriale profondamente integrata con l’Unione europea, maggior partner commerciale del paese sul Bosforo?
Eppure l’ipotesi comincia farsi largo tra gli analisti dopo che Recep Tayyip Erdoğan ha costretto una serie di governatori della Banca centrale turca a tagliare i tassi di interesse, su pressione della potente lobby degli immobiliaristi, come cura per l’inflazione.
E questo nonostante ci siano teorie economiche consolidate secondo cui una politica monetaria accomodante, nell’ordine: aggrava l'inflazione, innesca la fuga di capitali stranieri e indebolisce la lira.
Così l’indice dei prezzi al consumo, il Cpi è diventato sempre più distaccato dalla realtà. Il tasso di sconto ufficiale al 16 per cento è già ben al di sotto dell’inflazione stessa poiché la Banca centrale lo ha tagliato di 300 punti base quest’anno, sempre sotto la pressione del presidente Erdoğan che non rispetta l’autonomia dei banchieri centrali.
Il ricatto sui profughi
Sì certo la Turchia, se messa all’angolo, potrebbe far pesare il suo ruolo strategico nel continuare a tenere nei suoi campi profughi migliaia di rifugiati. Tutti in Europa sanno quanto sia importante che la “diga” turca resti in funzione.
Eppure la lira turca è ormai a un soffio da quota 13 per un dollaro dopo il sostegno ufficiale del presidente Erdoğan al terzo taglio consecutivo dei tassi di interesse. La lira turca è crollata di nuovo mercoledì verso un minimo storico, appesantita dalle preoccupazioni per l’aumento dell’inflazione e altre ricadute economiche, dopo un crollo del 15 per cento all’anno guidato dalla difesa del presidente Erdoğan dei recenti tagli dei tassi.
La lira mercoledì si è indebolita fino a 13,15 contro il dollaro prima di recuperare leggermente. Martedì aveva toccato il minimo storico di 13,45 lire contro il biglietto verde. La valuta della Mezzaluna sul Bosforo ha toccato minimi storici per una serie di undici sedute portando le sue perdite dall’inizio dell’anno al 43 per cento, con un calo del 23 per cento dall’inizio della scorsa settimana. Una débâcle.
Nonostante Erdoğan abbia difeso la politica monetaria della banca centrale e abbia promesso di vincere la sua «guerra economica di indipendenza», ci sono critiche diffuse da parte di personalità politiche del partito di opposizione Chp che chiedono un’azione per invertire la caduta della valuta.
Per ora però non c’è stato alcun accenno a un intervento per arginare il crollo valutario. La Banca centrale ha detto martedì che potrebbe farlo solo in determinate condizioni di «eccessiva volatilità». Frase sibillina che non ha tranquillizzato gli investitori stranieri. L’annuncio di un vago intervento di sostegno degli Emirati Arabi Uniti in favore della Turchia ha ridato temporaneamente fiato alla lira.
«Con il tasso di cambio odierno, l’inflazione ufficiale potrebbe superare il 30 per cento nei prossimi mesi. Con l’attuale tasso sui depositi questo significa un tasso di interesse reale del -15 per cento», ha scritto su Twitter l’ex capoeconomista centrale Hakan Kara. «Se non vengono prese misure urgenti, il sistema finanziario non può farcela», ha aggiunto. Una previsione che potrebbe portare la Turchia a diventare l’Argentina dell’Egeo e costringere il paese a chiedere assistenza al Fondo monetario internazionale. Ipotesi sempre smentita da Erdoğan.
Al voto, al voto
Eppure proprio Erdoğan ha esercitato pressioni sulla Banca centrale affinché varasse un aggressivo ciclo di allentamento che mira ad aumentare le esportazioni, gli investimenti e l’occupazione, anche se l’inflazione sale vicino al 20 per cento e il deprezzamento della valuta accelera, intaccando profondamente i salari dei turchi.
La maggior parte degli economisti hanno definito incomprensibili i tagli dei tassi, mentre i politici dell’opposizione del Chp hanno fatto appello per elezioni anticipate per evitare la bancarotta del paese. Il vertiginoso crollo della valuta sta stravolgendo i budget familiari dei turchi e i loro piani per il futuro.
Dopo un incontro tra Erdoğan e il governatore della Banca centrale Şahap Kavcıoğlu, la banca ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che la vendita di valuta locale era «irrealistico e completamente slegato» dai fondamentali economici. Sarà ma i mercati la pensano in modo diverso.
Il crollo di martedì è stato il più grande della lira in un giorno dall’apice della crisi valutaria nel 2018 che ha portato a una brusca recessione e a tre anni di crescita economica e inflazione a due cifre. La Banca centrale ha tagliato i tassi di un totale di 400 punti da settembre, lasciando i rendimenti reali negativi mentre tutte le altre banche centrali hanno iniziato a stringere contro l’aumento dell’inflazione o si stanno preparando a farlo.
Per Erdoğan invece la musica è tutta diversa. Entro la fine dell’anno la Turchia potrebbe raggiungere una crescita a doppia cifra. Lo ha dichiarato lo stesso presidente, in un videomessaggio trasmesso in occasione del vertice Turchia 2023 organizzato da Turkuvaz Media. «Pensiamo di raggiungere una crescita a due cifre entro la fine dell’anno. Continueremo ad aumentare la crescita sulla base dell’export, degli investimenti e dell’occupazione, senza dare credito ai profeti di sventura», ha dichiarato Erdoğan che in passato ha gridato al «complotto dei mercati internazionali».
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