L’assemblea dei soci è chiamata a decidere il destino dell’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa. Servono subito almeno 300 milioni per evitare la chiusura dell’impianto entro poche settimane, ma il governo e il socio di maggioranza Arcelor Mittal non hanno ancora trovato un accordo
Al tavolo dell’Ilva non è più tempo di bluff. Dopo mesi di rinvii, colpi bassi e mezzi accordi scritti sulla sabbia, Arcelor Mittal e il governo di Roma sono arrivati all’ultimo giro di carte. L’accordo va trovato in fretta, il più presto possibile perché le casse sono vuote. Ne va del destino dell’acciaieria, di Taranto, la più grande d’Europa, e dei suoi 10.500 dipendenti che assistono impotenti all’agonia di quello che per decenni è stato uno dei motori del sistema industriale italiano.
Il socio privato, che controlla la maggioranza del capitale, e quello pubblico si sono dati appuntamento per oggi, mercoledì, in assemblea con lo scopo dichiarato di deliberare una prima indispensabile iniezione di capitali, i 300 milioni necessari a evitare la chiusura. Un copione già visto. Questo è il terzo round di un match che ha preso il via il 23 novembre per proseguire cinque giorni dopo ancora con un nulla di fatto. Adesso si riparte con un’altra assemblea.
Vie d’uscita
Ci sono solo due soluzioni possibili. Una drastica, e cioè la rottura con Arcelor Mittal. A quel punto il governo, tramite la controllata Invitalia, metterebbe quanto necessario per tirare avanti ancora qualche mese e preparare il terreno per il salvataggio di un’Ilva necessariamente ridotta per ambizioni e dimensioni, magari con l’intervento di una cordata di privati (a questo proposito si è parlato a lungo dell’interesse da parte del gruppo Arvedi). L’altra possibilità è che i due soci trovino un’intesa su basi nuove. Un’intesa con una data di scadenza ravvicinata, con l’unico obiettivo di evitare il disastro e gestire la situazione fino all’uscita di scena dell’azionista privato.
A poche ore dall’inizio dell’assemblea l’incertezza è massima sull’esito del negoziato. Ancora ieri, il ministro delle Imprese Adolfo Urso, che in estate per decisione di palazzo Chigi si è visto sfilare il dossier Ilva dal collega Raffaele Fitto, si è limitato ad auspicare che «gli azionisti facciano la loro parte». Lo stesso Urso che lunedì ha incontrato Franco Bernabè, il presidente di Acciaierie d’Italia holding, a cui indirettamente fa capo la gestione del gruppo siderurgico. Bernabè si trova in una situazione quantomeno insolita. Quasi due mesi fa, il 17 ottobre, il manager, già al vertice di Eni e Telecom, ha annunciato di aver messo a disposizione del governo il suo mandato. Le dimissioni, però, non sono mai state formalizzate, mentre i due soci, da tempo in rotta di collisione, sono arrivati al muro contro muro.
L’azienda intanto va spegnendosi a poco a poco, come denunciano da tempo i sindacati, che hanno proclamato un sciopero di 48 ore (mercoledì e giovedì). Nei giorni scorsi è stato annunciata il fermo di uno dei due altoforni ancora funzionanti. Un fermo provvisorio, è stato detto, ma vista la situazione non si può escludere nulla. La produzione di acciaio quest’anno non supererà i 3 milioni di tonnellate la metà esatta di quanto previsto per il 2023 nel piano industriale siglato nel 2020. Un piano che per il prevedeva addirittura di superare la soglia degli 8 milioni di tonnellate nel 2024.
Indiani in fuga
Nel frattempo, tra il 2021 e il 2022, il mercato dell’acciaio ha visto una crescita straordinaria delle quotazioni, proprio mentre l’azionista Arcelor Mittal, azionista unico dal 2018 e poi in socio di maggioranza dal 2020, ha messo l’azienda nelle condizioni di produrre sempre di meno. Un declino che sembra confermare i peggiori sospetti. E cioè che la multinazionale a proprietà indiana abbia rilevato l’azienda italiana per disinnescare un pericoloso concorrente delle sue attività europee. L’anno scorso, con un’acrobatica operazione contabile, Arcelor Mittal ha escluso dal proprio bilancio consolidato la società italiana in crisi, di cui pure controlla la gestione.
Adesso che Ilva è agli sgoccioli anche lo scenario di mercato è cambiato. Il boom del 2021-2022 si è ormai esaurito, anche se il settore non è affatto in declino. In Europa però, come denunciano da mesi gli imprenditori, le nuove regole per favorire la transizione verde, insieme a un complicato meccanismo che in teoria dovrebbe ostacolare l’import a prezzo stracciato dall’Estremo Oriente, finiscono per penalizzare di molto aziende del Vecchio Continente. Si spiega anche così la strategia dell’azionista di controllo di Ilva, che preferisce puntare sulle su Asia e Stati Uniti, dove pure è molto forte, investendo lo stretto necessario altrove. Il bilancio di Arcelor Mittal, peraltro, non ha mai smesso di macinare profitti. Nei primi nove mesi del 2023 l’utile è molto diminuito rispetto ai 9 miliardi di dollari (circa 8,3 miliardi di euro) dello stesso periodo dell’anno precedente, ma ha comunque superato i 4 miliardi di dollari su ricavi per circa 53 miliardi.
Intanto, a Taranto, il piatto piange. È passato quasi un anno da quando il governo, negli ultimi giorni del 2022, girò 680 milioni di euro all’Ilva sotto forma di prestito soci. All’epoca Arcelor Mittal, a cui fa capo il 62 per cento del gruppo siderurgico, se la cavò con un contributo di soli 70 milioni, che non erano cash ma una semplice rinuncia a crediti di pari importo. Bastano questi numeri per capire chi tra i due azionisti gioca al ribasso. Solo che adesso i soldi sono finiti e non è più possibile dare un calcio al barattolo e poi vedere l’effetto che fa.
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