- La nuova versione del Patto di Stabilità e Crescita presentata dalla Commissione europea cerca di migliorarlo da diversi punti di vista, alcuni dei quali non sono esplicitati.
- Si vuol accentuare l’importanza della “crescita” che sta nel titolo e rimediare all’eccezionalità dei debiti e dei disavanzi. La situazione non è la stessa di quando nacque il Patto, insieme all’euro, col quale la relazione è sostanziale.
- Il Patto è stato più volte modificato, ma quest’ultima riforma vorrebbe essere più radicale. Molti la criticano. Prima di essere approvata potrebbe essere ancora cambiata. Conviene comunque considerarla un aiuto al coordinamento pragmatico per rimediare a una situazione dei bilanci che può andar fuori controllo.
La nuova versione del Patto di Stabilità e Crescita presentata dalla Commissione europea cerca di migliorarlo da diversi punti di vista. Alcuni sono dichiarati esplicitamente. C’è la volontà di rendere il Patto più semplice e “trasparente”, cioè meno interpretabile con trattative politiche “opache” fra i paesi e la Commissione. Si vuole anche rendere più incisivo il ruolo dei paesi nel disegnare i propri impegni di bilancio e, nel contempo, migliorare la capacità di Bruxelles di forzarne il rispetto. Si vogliono allungare i tempi dei piani di bilancio. Quanto questi obiettivi siano raggiunti dalla nuova proposta è questione controversa.
Ad esempio, alcuni osservano che il ruolo dei paesi è più incisivo solo formalmente e che, all’opposto, quello della Commissione è più intrusivo. Si contesta anche il raggiungimento dell’obiettivo di semplificazione e di trasparenza: rimangono discutibili tecnicismi e ciò rimette in gioco le trattative opache. Non si tratta comunque dell’ultima versione e, prima che il Consiglio vari il nuovo Patto, possono subentrare modifiche anche radicali.
Obiettivi impliciti
Conviene soffermarsi su questioni più di fondo, cominciando col dire che alcuni obiettivi della riforma del Patto sono meno espliciti, soprattutto due. Il primo, sul quale tornerò dopo: accentuare l’importanza dell’obiettivo di “crescita” che sta nel nome del Patto, collegandolo ai programmi più generali di politica economica dei singoli paesi. Il secondo: gestire una situazione di sostanziale emergenza, in cui i vincoli che i Trattati pongono ai debiti pubblici e ai disavanzi sono gravemente violati da diversi paesi, anche grandi. Il limite del 3 per cento del Pil per i disavanzi, nelle previsioni del Fmi per il 2023, è violato da undici paesi sui 20 membri dell’Eurozona; per otto di questi il deficit previsto è pari o superiore al 4,5 per cento. Quando fu introdotto l’euro, nessuno dei 12 paesi ammessi alla sua adozione poteva superare il 3 per cento. Il Trattato richiede che, se lo superano, possono farlo di poco e devono avere in corso una pronta riduzione. Il limite del 60 per cento del Pil per i debiti pubblici, nelle previsioni 2023 è superato da 12 Paesi su 20, sei dei quali superano il 100 per cento, fra i quali tre dei quattro “grandi”: Francia Italia e Spagna. Anche quando fu introdotto l’euro, Italia, Grecia e Belgio superavano il 100 per cento, ma solo uno era grande, in media lo superavano di meno del 15 per cento (oggi del 25 per cento con l’Italia sopra 140) e il Consiglio europeo poté constatare, seppur con generosità, che il loro rapporto debito /Pil stava scendendo “a velocità sufficiente”, come prescrive il Trattato.
Il legame con l’euro
Riandiamo alle origini del Patto. Esso fu adottato insieme all’euro e il suo collegamento con la moneta unica è sostanziale. Una disciplina coordinata dei bilanci pubblici era necessaria per due ragioni. Anche in questo caso, una ufficiale e l’altra no. Quella ufficiale: se si fissa centralmente la quantità di moneta e credito dell’eurozona, i governi che chiedono più fondi ai mercati finiscono per aumentare i tassi di interesse per tutti. La seconda ragione del Patto era solo sussurrabile: senza disciplina, un governo avrebbe potuto indebitarsi al punto da raggiungere l’insolvenza e “ricattare” gli altri perché lo aiutassero, dato che un suo fallimento avrebbe causato un trauma a tutti. Poiché l’aiuto era anche vietato dai Trattati, il Patto voleva difenderli. Il Patto sembrava inevitabile anche perché la cosiddetta “disciplina di mercato”, che i tassi di interesse impongono rendendo più costoso l’indebitamento di chi è più indebitato, era ritenuta a ragione inadeguata, spesso lenta e troppo o troppo poco severa.
Debiti insostenibili
Quando spiegavo in classe il “ricatto”, pur rendendomi conto che l’Italia era già allora una potenziale ricattatrice, ridimensionavo il tema, visto che l’insostenibilità del debito pubblico di un paese avanzato come quelli europei pareva allora impossibile. Fatto sta che, dopo dodici anni dall’avvio dell’euro e del Patto, cinque paesi dell’eurozona (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Cipro) persero ufficialmente l’accesso ai mercati per finanziare il loro debito pubblico, che appariva insostenibile, e furono altrettanto ufficialmente aiutati, prima da altri paesi membri e poi direttamente dall’Europa.
Per far ciò si trovarono pragmaticamente gli spazi nei Trattati e poi se ne fece uno nuovo, apposito: il famoso quanto poco conosciuto e tanto vituperato Mes. Ma la crisi più grave, per grandezza del paese, ampiezza e diffusione del suo debito, fu in realtà la sesta, quella italiana; meno ufficiale, perché non fu tale la perdita di accesso ai mercati: l’aiuto all’Italia e il suo sforzo di aggiustamento in extremis giunsero in tempo. Fu per noi, in buona sostanza, che il Consiglio europeo del giungo 2012 deliberò in modo da permettere a Mario Draghi il famoso whatever it takes.
Dunque, se la politica monetaria è indipendente e non finanzia automaticamente i debiti eccessivi, anche i paesi dell’eurozona possono fallire. Purtroppo, ciò non è ancora riconosciuto limitando gli acquisti di titoli di stato delle banche commerciali. Ma oggi i mercati, per quanto a lungo disorientati dal sostegno ai debiti dato col Qe della Bce, son diventati più esperti nella valutazione del rischio paese: di ciò va tenuto conto nel pensare al Patto, che non è l’unico a disciplinare i governi. Alla fine del 2011 fu il mercato, non il Patto, a cacciare il nostro governo.
Le modifiche
Nel frattempo, il Patto datato 1997 è stato più volte modificato, anche se ha mantenuto le caratteristiche di fondo. Già nel 2003 aveva mostrato limiti, quando Francia e Germania lo violarono impunemente. Fu un episodio importante: rivelò che la stessa carenza di unità politica che impediva una vera politica di bilancio comunitaria, impediva, a maggior ragione, di disciplinare il coordinamento delle politiche nazionali. Si cercò di reagire più di una volta con delle modifiche del Patto, troppo complicate e ambiziose: per prescrivere ai paesi devianti gli aggiustamenti più adatti e accettabili, si vollero distinguere in sempre maggior dettaglio circostanze e ragioni delle deviazioni. Si finì in trattative opache e, paradossalmente, molto politiche su questioni molto tecniche; intanto il Patto non riusciva a disciplinare abbastanza i governi, mentre incentivava aggiustamenti troppo pro-ciclici, cioè strette fiscali in recessione e viceversa.
Ora si voglion fare cambiamenti più radicali, con obiettivi espliciti e impliciti, come detto prima. Fra i secondi vi è l’accento sul fatto che si tratta sì di un Patto per la stabilità finanziaria, disciplinante, ma anche per la crescita, incoraggiante. All’inizio era chiaro l’accento sulla disciplina: la crescita era menzionata perché non c’è crescita sostenibile senza disciplina e questa va perseguita senza peggiorare le prospettive di crescita di medio-lungo. Col tempo, l’intitolazione alla crescita è stata letta quasi come un prevenire aggiustamenti del bilancio che rallentino la crescita nel breve andare: il che è spesso impossibile. Ora si vorrebbe che la crescita diventasse ancor più intrinseca al Patto: secondo l’ultima proposta, i bilanci andranno formulati e giudicati insieme a piani complessivi di politica economica, investimenti e riforme, con attenzione agli obiettivi di sostenibilità ambientale e altro ancora. Il che rende il tutto molto flessibile, trattabile, politico e soprattutto complicato. D’altra parte, come fare ad affrontare con realismo l’aggiustamento di Paesi, come Italia, Francia ed altri minori, che devono rientrare da debiti molto maggiori di quanto prescrive il Trattato e hanno prospettive di disavanzi tutt’altro che facilmente disciplinabili?
Conviene prendere l’accordo che verrà raggiunto come aiuto a un coordinamento pragmatico per rimediare a una situazione che rischia di diventare fuori controllo. E conviene sperare che la politica monetaria confermi il suo ritorno al rigore contro l’inflazione e l’eccessiva liquidità del sistema finanziario: ciò aiuta anche la disciplina con cui i mercati quotano tassi di interesse sui debiti pubblici tali da aiutare davvero il Patto a disciplinarli.
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