- Le banche centrali hanno molto accresciuto la liquidità del sistema e ridotto i tassi, portandoli sotto zero. Come da copione, gli investitori sono stati spinti ad uscire dai titoli “sicuri”, avventurandosi su quelli che hanno pericoli, e opportunità, maggiori.
- Da qui il boom di tutti gli attivi a rischio: dalle azioni in perenne ascesa, fino alle criptovalute
- Ora ci si chiede come faranno le banche centrali ad “uscire” da questa politica, come potranno scendere dalla tigre che hanno scatenato abbandonando l'ortodossia del loro mestiere.
Le grandi banche centrali, in Europa e negli Usa, tengono basso il costo a breve del denaro, così da far salire l'inflazione fino al livello desiderato, il 2 per cento annuo. Ciò serve ad allontanare lo spettro della deflazione - incubo dei debitori e freno sui consumi – ad assorbire gli aumenti di costo senza che ciò gonfi troppo l'inflazione stessa, ad aumentare gli investimenti produttivi “punendo” quelli privi di rischio, e a tenere alto il livello di attività economica, aumentando l'utilizzo degli impianti.
Perciò le banche centrali hanno molto accresciuto la liquidità del sistema e ridotto i tassi, portandoli sotto zero.
Come da copione, gli investitori sono stati spinti ad uscire dai titoli “sicuri”, avventurandosi su quelli che hanno pericoli, e opportunità, maggiori. Da qui il boom di tutti gli attivi a rischio: dalle azioni in perenne ascesa, fino alle criptovalute, massima espressione di una finanza slegata da qualsiasi reale esigenza.
Ora ci si chiede come faranno le banche centrali ad “uscire” da questa politica, come potranno scendere dalla tigre che hanno scatenato abbandonando l'ortodossia del loro mestiere; questa fu ben espressa nel 1955 dall'allora presidente della Fed, o Federal Reserve System (banca centrale Usa), William McChesney Martin, quando disse che loro compito è levare dal tavolo i superalcolici appena il party accenna a riscaldarsi.
Che questa non sia più la linea delle banche centrali è ormai chiaro a tutti, ma che essa possa addirittura voltarsi nel suo contrario pare inverosimile. Da qui l'arrovellarsi su cosa deve succedere perché qualcuno, a Washington, a Tokyo o a Francoforte, faccia sparire il whisky. E soprattutto cosa succederà dopo.
Risposte diverse
Gli esperti di macroeconomia, di me assai più titolati a tali giudizi, mi perdoneranno se espongo qui le mie sensazioni – definirle “idee” sarebbe azzardato – su tale spinoso tema. Una premessa pare necessaria: oso credere che le banche centrali seguiranno i loro solenni principi di comportamento senza tentennamenti, certo, ma solo fin quando ciò non comporterà disastri, economici o, ancor più, politici.
Il discorso del '55 di Martin esordiva con un aneddoto, la cui scelta mi pare molto significativa, in cui racconta di un professore d'economia che faceva sempre le stesse domande. Quando gli chiesero come mai qualche studente potesse essere bocciato, rispondeva: «Beh, le domande non cambiano, ma le risposte sì».
Questo realismo traspare nella lenta avanzata del pensiero delle banche centrali sul livello d'inflazione accettabile o, meglio, desiderabile.
Se la Fed di Martin pensava (egli lo dice nel '55) che un'inflazione al 3 per cento avrebbe distrutto l'American way of life, quella attuale ha appena definito una revisione strategica per cui prevede di prendere provvedimenti contro l'inflazione solo quando questa si sia realmente manifestata travolgendo l'obiettivo del 2 per cento , non quando ciò sia solo possibile o perfino probabile. La Fed, poi, valuterà la media dell'inflazione nell'arco di tutto un periodo, non solo su dati puntuali.
Anche la più guardinga Bce, che sta ultimando la revisione della propria strategia, non esiterebbe a seguire la Fed ove l'euro dovesse apprezzarsi troppo sul dollaro. Se serviva una scusa, eccola pronta: non si capisce perché l'inflazione non reagisca, o lo faccia diversamente da quanto previsto nei sacri testi, alla riduzione della disoccupazione, o all'aumento dell'occupazione (il secondo valore non è il reciproco del primo). Quindi, aspettare e vedere pare la sola scelta sensata.
Barriere meno rigide
Nessuno osa mettere in discussione la “separatezza” fra politica di bilancio (competenza del governo che ne risponde al parlamento), e politica monetaria, spettante alla banca centrale, ma forse quei scintillanti principi sono ora lustrati con meno cura di prima. E ciò per due concreti motivi.
Il primo ha a che fare con il piccolo e stranoto particolare che l'inflazione avvantaggia i debitori; e chi sono i principali debitori oggi, se non i governi che nominano i vertici delle banche centrali? Ciò non significa affatto che essi desiderino, o anche solo accettino, un'inflazione fuori controllo; lungi da ciò, essi sono però segretamente lieti che una sua moderata forza consegua, oltre ai solenni obiettivi su richiamati, anche una moderata, quindi poco percettibile, riduzione del valore reale del debito gravante su loro, quindi su tutti i cittadini.
Così funziona la repressione finanziaria: chi preferisce i titoli governativi perderà comunque soldi: per via dell'inflazione se c'è, o dei tassi negativi se non c'è, così investirà in titoli a rischio. È la morte del rentier, se non la sua eutanasia.
Una modica inflazione spingerà anche in su i titoli azionari, col che veniamo al secondo dei grandi motivi per la mutazione in atto. Lo stesso Martin, nel medesimo discorso in cui sosteneva la necessità di portar via il whisky, affermava pure che, essendo responsabilità del governo «prevenire le crisi finanziarie, (esso) dovrebbe utilizzare tutti i suoi poteri per farlo». E anche la Fed è strumento del governo.
Più volte, allo scoppio della crisi finanziaria del 2007, suoi esponenti di vertice han detto che non avrebbero mai permesso alla crisi di rovinare il tenore di vita degli americani. In chiaro, essendo una parte importante delle pensioni americane agganciata, direttamente o indirettamente, ai corsi dei titoli azionari, non avrebbero lasciato che questi crollassero. In effetti, quando nel 2008 le grandi banche stavano per saltare, il governo Usa reagì con una larghezza di mezzi poco compatibile coi suoi sacri principi liberistici.
Perché ci sarà l’inflazione
Oggi, tredici anni dopo, non c'è motivo di pensare che sia davvero venuta meno la famosa Greenspan put, cioè l'opzione, implicitamente concessa dalla Fed agli operatori, di cederle i propri titoli. Ciò non vuol dire che questi debbano sempre salire di valore, ma che una loro disastrosa caduta farebbe scendere in campo lo zio Sam, con tutte le sue armi, anche non convenzionali.
Il futuro potrebbe dunque riservarci, nella visione della Fed (ma la Bce non potrebbe prendere la rotta opposta) un po' d'inflazione e, se non proprio un pavimento che sostenga i valori azionari, almeno un freno che ne freni le possibili cadute. Il sentiero è stretto e pericoloso, ma tutti i poteri vanno usati per prevenire la crisi finanziaria.
Lo pensava l'ortodosso Martin, tanto più lo pensano, sessantasei anni dopo, il presidente attuale della Fed Jerome Powell e l'immediata predecessora di questo, Janet Yellen, oggi alla guardia del Tesoro Usa. Le domande sono sempre le stesse, ricordiamocene, ma le risposte cambiano.
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