Chiesti 28 anni per Riva, il manager Capogrosso e il collaboratore Archinà. Sotto accusa anche la politica, Vendola rischia 5 anni, Fratoianni 8 mesi
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- Per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, rispettivamente 28 e 25 anni di carcere. Sono le richieste di condanna più severe avanzate mercoledì 17 febbraio dalla pubblica accusa nell'ambito del processo “Ambiente Svenduto”.
- Cinque anni la richiesta per l’ex governatore pugliese Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso e otto mesi al leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, all'epoca assessore regionale nella giunta Vendola, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex governatore.
- “Una condotta pluriennale”, “un grave danno sanitario” e i soldi che “muovevano ogni scelta”: con queste parole Mariano Buccoliero, uno dei quattro pubblici ministeri della Procura di Taranto che si sono alternati nelle requisitorie, ha esordito prima di leggere le richieste di condanna.
Per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, rispettivamente 28 e 25 anni di carcere. Sono le richieste di condanna più severe avanzate mercoledì 17 febbraio dalla pubblica accusa nell'ambito del processo “Ambiente Svenduto” per il presunto disastro ambientale nei 17 anni di gestione dello stabilimento siderurgico di Taranto da parte del gruppo Riva. Cinque anni la richiesta per l’ex governatore pugliese Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso e otto mesi al leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, all'epoca assessore regionale nella giunta Vendola, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex governatore. I pm del pool per i reati ambientali della Procura di Taranto hanno chiesto invece di riconoscere la prescrizione per l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefàno e la condanna a quattro anni per l’ex presidente della Provincia Gianni Florido che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata.
Per Girolamo Archinà, ex responsabile dei rapporti istituzionali e considerato dall’accusa il collaboratore principale dei Riva, sono stati chiesti 28 anni e la stessa pena viene invocata per Luigi Capogrosso, ex direttore del siderurgico. Chieste pene tra i 17 e i 20 anni di carcere anche per altri dirigenti e capi area della fabbrica. Pesante anche la richiesta per l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante che è stato prima presidente e poi commissario dell’Ilva: 17 anni.
“Una condotta pluriennale”, “un grave danno sanitario” e i soldi che “muovevano ogni scelta”: con queste parole Mariano Buccoliero, uno dei quattro pubblici ministeri della Procura di Taranto che si sono alternati nelle requisitorie, ha esordito prima di leggere le richieste di condanna alla Corte presieduta da Stefania D’Errico. Richieste pesantissime. È il primo, ovviamente provvisorio, punto di approdo della maxi inchiesta giudiziaria esplosa il 26 luglio 2012 con il sequestro dello stabilimento e l’arresto dei principali accusati, tra i quali l'anziano boss del gruppo, Emilio Riva, morto pochi anni dopo: ci sono 47 imputati, 44 persone fisiche e 3 società (Ilva, Riva Fire e Riva Forni Elettrici) che rispondono per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese. Alla fine le pene richieste assommano a 386 anni di carcere.
Chiesta la confisca
L’accusa chiede anche la confisca degli impianti dell’area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012. Associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele in materia di sicurezza sul lavoro, corruzione: questi sono i principali reati contestati. Tra i capi di imputazione, anche l’omicidio colposo per la morte di due operai in fabbrica: Claudio Marsella, schiacciato da una motrice ferroviaria il 30 ottobre 2012, e Francesco Zaccaria, sprofondato in mare con la cabina della gru su cui stata lavorando il 28 novembre 2012 quando un uragano si abbatté su Taranto. Adesso si andrà avanti col fitto calendario delle arrighe - tra responsabili civili, parti civili, difesa ed eventuali repliche - sino al 21 aprile con un ritmo di tre udienze a settimana: lunedì, martedì e mercoledì. La sentenza di primo grado è attesa presumibilmente a inizio maggio.
Mariano Buccoliero, Remo Epifani, Giovanna Cannarile e Raffaele Graziano. È la squadra dei pubblici ministeri che hanno descritto una città “venduta ai Riva”. Hanno sferzato la gestione della famiglia proprietaria della fabbrica che nel 2013 - quasi un anno dopo il sequestro del 2012 degli impianti dell’area a caldo da parte del gip di Taranto perché inquinanti e “fonte di malattia e morte” - fu estromessa dal governo. Dopo una lunga gestione commissariale, si è tentata di nuovo la strada della privatizzazione con l’arrivo di ArcelorMittal nel 2018. Ora è in pista di lancio il progetto di una partnership pubblico-privata con l’ingresso dello stato tramite la società Invitalia. Si prova a cancellare quel passato polveroso in cui il rione Tamburi, “il quartiere delle ciminiere”, era sopraffatto da diossina e benzopirene.I Riva sono accusati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.
Complicità politiche
Secondo i pm era il sistema intero compromesso con “atti di intesa che erano solo fumo negli occhi. La diossina Ilva aveva contaminato suoli agricoli e pascoli”. E l’area a caldo, tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni, per i magistrati “era un colabrodo di emissioni fuggitive imponenti”. In questo quadro, i pm hanno spiegato l’interconnessione stretta con la politica. A tessere la tela l’uomo delle pubbliche relazioni di Ilva Girolamo Archinà, “figura di primo piano di questo processo chiamato a seguire gli affari, anche illeciti, dell’azienda”. Parlava con il presidente della Regione Puglia Vendola che secondo Epifani operò una “pesantissima intercessione" verso l'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, affinché rivedesse la sua relazione sullo stato delle cokerie attenuandone l'impostazione. Per il pubblico ministero, il sistema per ottenere il rilascio delle autorizzazioni era il contatto diretto con i politici e non con i tecnici e le figure amministrative degli enti competenti. E in questo schema, il pm Epifani ha collocato anche l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido e l’ex assessore provinciale all’Ambiente, Michele Conserva. Dentro la fabbrica, invece, il comando era affidato ai cosiddetti fiduciari: il pm Cannarile ha ricordato il ruolo di questi uomini non rientranti nell’organigramma, “il vero pilastro su cui la proprietà poteva fare sicuro affidamento. Erano inseriti in una governance di tipo parallelo”.
Quanto vale una vita?
«A Taranto hanno preso la dignità, l’orgoglio dei lavoratori e la salute dei cittadini e tutto per la logica del profitto sfrenato». La requisitoria fiume di Buccoliero ha avuto questo epilogo che partiva poi da una domanda rivolta alla Corte: «Quanto vale la vita di un uomo? La risposta non può che essere unica. Vale più di tutto. Non ci devono essere più disegni di bimbi che rappresentano il siderurgico come un mostro assassino che porta via il loro papà. Non ci devono essere più culle vuote».
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