«L’Autan l’hai messo?», chiede Enrico fermandosi al riquadro 108 del cimitero Flaminio di Roma. Abbiamo scordato il repellente delle zanzare, purtroppo, ma l’erba alta e la parziale incuria lo rendono inutile quanto maniche e pantaloni lunghi.

Lo lamentavano anche le due donne che, nel settembre del 2020, si erano trovate in questo campo, di fronte a delle croci con il proprio nome e cognome, erette sui feti abortiti un anno prima. Una pubblicò una foto su Facebook, innescando lo scandalo che ne è seguito. Mostrava il suo nome, il riquadro, la fila e la fossa, scritti con una grafia bianca e incerta. L’altra donna iniziò a parlarne con media italiani e internazionali in decine di interviste, portando all’attenzione di tutti l’esistenza dei cimiteri dei feti.

Ci sono voluti quattro anni per ricostruire questa vicenda, a Roma e in altre parti d’Italia, e capire cosa abbia trasformato aborti sofferti in sepolture di cui le interessate non sapevano nulla. Anni di ricerche sfociate in “20 settimane”, il primo podcast delle inchieste sostenute dai lettori di Domani (prodotto con Emons Record) che potete ascoltare sul nostro sito e su tutte le piattaforme digitali, come Spotify.

«Un lavoro immenso»

In quel giorno d’estate del 2022, in un camposanto di 140 ettari attraversato da varie linee di autobus, volevamo sapere quante fossero davvero le tombe contestate, ovvero le potenziali vittime, visto che pochissime donne avevano denunciato pubblicamente il torto subito. L’Ama (l’Azienda Municipale Ambiente che è responsabile dei cimiteri e della nettezza urbana della Capitale) ne aveva dichiarate circa 2.500 dal 2011. I suoi funzionari sostenevano di non potere accedere ai registri per motivi tecnici o, comunque, per privacy. Ci serviva una memoria storica del cimitero più grande d’Italia. Avevamo finalmente trovato Enrico, un uomo schivo, sulla sessantina: il custode del Flaminio, che i romani chiamano cimitero di Prima Porta, dalla zona in cui si trova.

Il riquadro 108 brillava al sole dell’alluminio delle croci nuove. Ne avevamo viste scaricare a pacchi in altri lotti per rimpiazzare quelle di legno marcite dal tempo o cadute. Le targhette con le identità delle partorienti erano state sostituite e riportavano ormai la numerazione della collocazione e un codice. L’eco del cimitero dei feti sui social media e sui giornali e l’immediato avvio delle inchieste della magistratura e del Garante della Privacy, infatti, avevano spinto il comune di Roma a cambiare le regole per le future sepolture e a disporre di sanare la situazione esistente.

«È stato un lavoro immenso» e qualcuno doveva pur farlo. Enrico si è offerto volontario. «Compilavo le targhette su all'ufficio, venivo qua e le mettevo», con l’aiuto occasionale di altri operatori. Arrivati al campo 92, dove sono sepolti resti di aborti dal 2011 al 2015, Enrico quasi si giustifica: «Sai con la pressione che c'avevo. Perché i giornalisti, corri qua, sbrigati», la voce del custode si fa più sottile, «... o ma non è che mi mettete nei guai?».

ANSA

“Il Crociaro”

L’enorme violazione della privacy esibita al Flaminio per decenni (la legge 194, che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza nel 1978, garantisce espressamente l’anonimato per chi abortisce) è stata risolta praticamente da una sola persona, armata di pazienza e di un pennarello bianco indelebile.

«Più che altro ci vuole tempo. C'è proprio un registro, dove è tutto catalogato: croce, fosse, tutto quanto. Devi controllare per mettere le croci nuove nei posti giusti sulle vecchie sepolture, spesso rimaste sguarnite». Un primo tentativo di ripulire le targhette esistenti con alcool e vernice aveva giusto prolungato lo strazio: nomi e cognomi erano diventate scritte grigie impresse su ogni lastra.

Enrico ha completato l’opera tra 2021 e 2022, due file di croci al giorno, nei quattro campi esistenti. Quattro, perché le sepolture d’ufficio dei prodotti abortivi dal 2004 erano ospitate ai riquadri 91 e 89bis, senza contare i campi usati in precedenza e ormai esumati (l’ultimo il 309). Una sostituzione sistematica delle croci e non senza problemi: una delle poche donne, che era riuscita a traslare i resti del feto cancellando quella tomba improvvisata, si è vista crocifissa nuovamente. Quando glielo abbiamo fatto notare, Enrico ha allargato le braccia rassegnato. «È da quando è nato il cimitero che mettono il nome della mamma», aveva replicato senza meraviglia.

Che i cimiteri comunali dovessero accogliere i «nati morti e i prodotti del concepimento dopo il quarto mese» era già indicato nel Regolamento di polizia mortuaria del 1942. Quelli successivi, emanati nel 1975 e nel 1990 (oggi in vigore), hanno stabilito il discrimine arbitrario delle venti settimane di gestazione: smaltimento tra i materiali ospedalieri infettivi sotto quel limite e, sopra, il seppellimento obbligatorio, sempre a carico delle istituzioni in caso di assenza di una richiesta per una sepoltura privata da parte degli interessati entro 24 ore dal parto.

Cosa accadesse nel “dopo aborto” – i mesi, cioè, in cui i resti oltre le venti settimane rimangono in un freezer dell’obitorio, il prelievo dell’Ama per il trasferimento al cimitero e la sepoltura – lo hanno scoperto solo le donne che hanno indagato per conto proprio tra ospedali e Flaminio. Questo prima che lo spiegasse in un’ordinanza nel 2022 il giudice che ha archiviato le indagini penali a carico di due funzionari incaricati della gestione dei dati personali, senza tuttavia indagare mai negli ospedali di Roma.

Lì, in questi anni, si è continuato ad abortire. Al riquadro 108 ogni tanto spuntavano cumuli allineati di terra fresca, poi sfociati al 192 dove dei cippi verticali di pino hanno preso il posto dei simboli religiosi. Non c’era granché da fare ormai per il Crociaro, come lo hanno ribattezzato i colleghi. Enrico se n’è andato in pensione. Dopo trent’anni tra questi viali, è grazie a lui che è terminata la mostra degli abusi a Prima Porta: quasi 5mila feti sepolti e, quasi tutti, d’ufficio.


Le inchieste sostenute dai lettori

Fin dalla fondazione di Domani, abbiamo deciso di coinvolgere lettrici e i lettori che dal 2020 sostengono, anche con pochi euro, la realizzazione di alcune delle nostre inchieste: finora con le tante donazioni ne abbiamo realizzate oltre 20. Dal 14 novembre è partito il nuovo ciclo con il podcast “20 settimane”: nove puntate disponibili sul nostro sito, su Spotify e sulle altre principali piattaforme. Firmato da Flavia Cappellini e Gabriele Barbati, prodotto con Emons Record, da oggi è possibile sostenerlo sul nostro sito.

Venti settimane è lo spartiacque temporale in cui la donna può scegliere cosa avviene al feto dopo l’aborto. Tutto comincia in un cimitero di Roma, dove vengono scoperte centinaia di sepolture. Sulle croci i nomi e i cognomi di chi ha abortito. Sepolti i loro feti. Inizia da qui un’indagine sul campo, con le testimonianze di chi ha scoperto i propri nomi su quelle croci.

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