La vicenda di Valentina Milluzzo, incinta di due gemelli, morta nel 2016, racconta un presente ancora attuale. L’aborto l’avrebbe salvata. I medici sono stati assolti in appello. La ginecologa Elisabetta Canitano: «L’interruzione di gravidanza può essere anche una cura»
In primo grado erano stati condannati a sei mesi, ma ora sono stati assolti dalla corte d’appello di Catania, con la formula «perché il fatto non sussiste». Parliamo dei quattro medici del reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Cannizzaro a processo per la morte di Valentina Milluzzo, la 32enne alla 19esima settimana di gravidanza deceduta il 16 ottobre 2016 dopo avere perso i due gemelli che aspettava grazie alla fecondazione assistita. Del caso si occupò anche il ministero della Salute, che inviò degli ispettori all’ospedale Cannizzaro.
La procura di Catania contestava ai medici la «colpa professionale» per «imprudenza, negligenza e imperizia», che avrebbe «determinato il trasmodare della sepsi in shock settico irreversibile» che avrebbe causato il decesso della paziente.
Secondo le testimonianze del marito di Milluzzo, il medico di turno dell’ospedale Cannizzaro di Catania, gli avrebbe detto: «Se questi (i feti, ndr) hanno battito non posso intervenire. Sono obiettore di coscienza».
L’obiezione, un pericolo
La ginecologa e presidente dell’associazione Vita di donna onlus Elisabetta Canitano racconta a Domani come è iniziata la vicenda: «Nel 2016 una giovane donna di Catania va a fare una fecondazione assistita, rimane incinta di due gemelli. Sembra andare tutto bene ma poi si ricovera in ospedale e, dopo diciassette giorni, muore di setticemia».
Milluzzo, infatti, «ha avuto un’apertura di utero a sedici settimane, cioè il sacco amniotico è uscito dall’utero con tutte le membrane ed era in vagina». Quindi, sottolinea Canitano, «una condizione di altissimo rischio per infezione. Il fatto che lei fosse a rischio non è stato sufficiente, per i medici di quell’ospedale, per offrirle un aborto come cura, nonostante le linee guida delll’Oms dicano che un feto non ancora in grado di sopravvivere non può essere lasciato dentro se la madre è in pericolo, e dunque va proposto alla donna di abortire».
Dopo quattordici giorni di ricovero, nel frattempo, «il sabato mattina, ha avuto una setticemia, di fronte alla quale, come raccontano i genitori di Valentina in numerosi video su YouTube, ha avuto improvvisamente la febbre alta. Anche di fronte a questo episodio non le è stato praticato l’aborto, con motivazioni fumose. I genitori ci dicono che il medico è uscito dicendo: “Sono un obiettore di coscienza, essendo che ci sono ancora i battiti fetali, io non interverrò”».
Secondo la dottoressa, il processo è stato condotto «solo come un processo di malasanità, ma il problema è che la perizia iniziale del tribunale aveva detto che la morte era da riferirsi al fatto che non le avessero svuotato l’utero. Ed è assolutamente presumibile che se le avessero svuotato l’utero sarebbe ancora viva. In questo ospedale, erano tutti obiettori di coscienza». L’unico medico gettonista non obiettore, inoltre, «era esterno, non entra mai in reparto. Nessuno le ha nemmeno ipotizzato la possibilità di uscire per poter accedere all’aborto».
Per la dottoressa, i problemi sono molteplici: «Che i medici obiettori non si occupino della proposta di aborto alle donne con un feto che non può sopravvivere capita spessissimo. Per la nostra legge si può abortire dopo i 90 giorni solo in caso di grave pericolo di vita. E “grave” è una brutta parola, perché se sei in grave pericolo di vita molte volte muori, bisognerebbe arrivare prima».
Gli ispettori mandati, all’epoca, all’ospedale Cannizzaro «sono tornati dicendo che era tutto a posto. I medici in primo grado sono stati dichiarati colpevoli, poi tutto è cambiato. Come potevano, i familiari, pensare che in uno degli ospedali più grandi di tutta la Sicilia gli venisse nascosta la possibilità di fare un aborto per proteggere la vita della propria figlia?».
Canitano incalza: «In questo paese, nei fatti, non è chiaro se una donna sia più importante di un feto. E la cosa incredibile è che ce lo domandiamo anche nel caso di un feto che non può sopravvivere». Inoltre, continua la dottoressa Canitano, «negli ospedali religiosi, questi aborti non li fanno a meno che non stiano davvero morendo, trasferendole negli ospedali laici. Quando non avremo più ospedali laici, perché avranno conquistato tutto, queste donne moriranno: non esisterà nessuna chance per loro».
Le storie di altre donne
La dottoressa ha scritto anche uno spettacolo teatrale e un monologo, intorno alla vicenda e, insieme alla sua associazione, raccoglie molte testimonianze di donne, come racconta a Domani: «Se io dico che l’obiezione di coscienza mette in pericolo di morte le donne anche in Italia, questo non piace. Mi ha scritto una donna ricoverata al Gemelli con il sacco rotto a diciassette settimane: “Sono ricoverata qui da una settimana, continuano a parlarmi del mio bambino, ma nessuno mi dice cosa rischio anche io. Ho un bambino di cinque anni a casa, mi potete aiutare?”».
La dottoressa Canitano le risponde: «Esca di lì, le prendo un appuntamento al Pertini. Il giorno dopo comunica la sua volontà di uscire al direttore della maternità, che la convince a rimanere lì per il bene del bambino. Il mattino dopo, il direttore la dimette e la manda a casa con il sacco rotto e con gli antibiotici in mano, dicendole: “Quello che fa qui può farlo a casa”».
La signora, dopo essere stata dimessa, «si reca all’ospedale Umberto I dove il collega al quale viene affidata, che è un collega non obiettore, dice alla paziente: “Se lei vuole stare qui ad aspettare, noi non abbiamo niente in contrario. Se vuole che la consigliamo noi, noi pensiamo che debba fare un aborto, ormai sono dieci giorni che il sacco amniotico è rotto e questo bambino non può sopravvivere”». Le donne, dunque, devono poter scegliere ed essere correttamente informate, «ma spesso ciò non avviene. Loro (i medici antiabortisti, ndr) si rifiutano di parlare di aborto come cura».
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