Cecilia Sala si trovava in Iran con un visto giornalistico quando, un giorno prima del rientro, il 19 dicembre, è stata arrestata dalle autorità iraniane, mentre nella sua stanza d’albergo di Teheran stava ultimando la puntata quotidiana del podcast Stories di Chora Media. Mercoledì 8 gennaio palazzo Chigi ha annunciato la sua liberazione ed è tornata in Italia

Concedere un visto giornalistico, fa notare la diaspora, in un paese come l’Iran, in cui giornalisti iraniani rischiano ogni giorno di essere arrestati e condannati a molti anni di carcere, non è senza uno scopo. Può essere uno strumento per modellare l’immagine che il mondo ha del paese e del suo governo.

Lo stesso è accaduto ad Alessandra Campedelli, allenatrice della nazionale femminile di pallavolo, prima iraniana e poi pakistana. «Hanno usato lo sport come strumento politico», racconta Campedelli a Domani, la cui azione era costantemente limitata dalla Federazione, vicina al governo iraniano. Il controllo delle autorità è aumentato soprattutto dopo le proteste di massa scaturite in seguito alla morte di Mahsa Amini, la ragazza curdo-iraniana arrestata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, e poi morta in detenzione nel settembre del 2022.

L’esperienza in Iran, insieme a quella con la nazionale pakistana, verranno raccontate dalla Ct in un docufilm – “Donne di Altri mondi” – e in un libro che verrà pubblicato da La nave di Teseo.

Lei ha vissuto un anno in Iran, dal 2 gennaio 2022 al 10 febbraio 2023, perché ha deciso di non proseguire quell’esperienza?

La scelta è diventata chiara dopo l’incontro a cui sono stata costretta a partecipare con il presidente Raisi (l’ex presidente Ebrahim Raisi è morto in un incidente in elicottero lo scorso maggio, ndr). Già con la morte di Mahsa Amini la situazione era molto cambiata, per me e per le atlete. Non eravamo più tranquille nel lavoro, negli spostamenti, il governo limitava internet e non si capiva cosa stesse accadendo nel paese.

A tutto ciò, si è aggiunto che, in piena protesta, il presidente Raisi – probabilmente bisognoso di mostrare al mondo un altro volto – ha pensato di fare una cosa eclatante: invitare in Parlamento le donne sportive che avevano vinto una medaglia ai Giochi della solidarietà islamica di Konya. E c’era anche la nostra squadra.

La convocazione è arrivata la sera prima. Raisi era soprannominato il macellaio di Teheran, per aver firmato la condanna a morte di migliaia di persone. La nazionale di calcio maschile lo aveva già incontrato ed era stata criticata dal popolo che lo considerava un gesto a favore del governo. La mia squadra non voleva andarci. Abbiamo provato in tutti i modi a evitarlo. Si sono presentate all’incontro solo sei atlete e altre otto erano fuggite, dello staff eravamo tre su sette.

Un incontro sofferto, in cui ho preso le difese di una ragazza, costretta a leggere la lettera scritta dalla Federazione, chiaramente schierata a favore del governo, e sono stata portata in una stanza, dove mi hanno fatto togliere l’orologio, consegnare il cellulare.

Era diventato eticamente insostenibile continuare a lavorare per una Federazione vicina a un governo sanguinario. Lo sport non era più distaccato dalla politica.

Cecilia Sala aveva ricevuto un visto giornalistico, il regime sapeva della sua presenza e delle sue attività. C’era anche nel suo caso un controllo sul suo lavoro?

Certo, anche del mio telefono, delle mie interlocuzioni, degli interpreti messi a disposizione. E questo è diventato molto chiaro in alcune occasioni.

Una volta ho provato a partecipare con la mia squadra a una protesta dopo la morte di Mahsa Amini. Le ragazze si erano messe d’accordo con altre nazionali femminili a pubblicare una foto ispirata al bacio di Shiraz (simbolo delle proteste nel paese, ndr), in cui davano un bacio sulla guancia a un fratello, un padre, un compagno.

Avevamo programmato di pubblicarla tutte insieme alle 8 del mattino. Ho cliccato invio, non ho avuto neanche il tempo di appoggiare il telefono, che ho ricevuto una chiamata dalla Federazione, che mi ha intimato di eliminare subito il post. Ero chiaramente controllata.

Nella sua esperienza, qual era l’atteggiamento del regime nei confronti delle cittadine straniere?

Non vengono considerate. Se da una parte vogliono far vedere un’apertura, dall’altra non è la realtà. Nel mio caso, invitandomi come allenatrice straniera, avrebbero voluto dimostrare che avrei fallito. E quando abbiamo invece dimostrato il contrario, con la medaglia d’argento di Konya, non accadeva dal 1956, anziché rappresentare una grande vittoria, ha rivelato che anche le donne potevano emergere. Una disgrazia per quel governo, che ha iniziato a ostacolarci.

Da quanto ha potuto osservare, che rischi corrono le atlete iraniane?

Ero condizionata in maniera importante sulla scelta delle atlete. Se un’atleta postava una foto con l’hijab messo male o si dipingeva le unghie, non potevo più convocarla in nazionale.

Senza parlare di quelle che non si sono presentate all’incontro con Raisi. Per molto tempo non sono state più raggiungibili. Ho chiesto loro se volessero condividere la loro testimonianza nel docufilm, anche sotto anonimato, ma hanno il terrore. D’altra parte però sui social a volte sembrano voler sfidare il governo e la Federazione. Dopo la mia partenza, alcune hanno lasciato il paese: una gioca in Bulgaria, un’altra in Turchia.

C’era disparità di trattamento tra lei e i suoi colleghi uomini?

Nel mio stesso periodo c’era un altro italiano come secondo allenatore della nazionale maschile, Tommaso Totolo. Io, da capo allenatore di tutto il settore femminile, vivevo sopra la palestra, in una cameretta di tre metri quadri. Invece Totolo viveva nell’hotel a cinque stelle, pur da secondo allenatore. La squadra maschile si allenava con l’aria condizionata. Noi anche con 50 gradi non ce l’avevamo. Loro avevano il fisioterapista, il medico e tutto lo staff. Io ero da sola, senza personale medico. La disparità era evidente.

Con che scopo quindi pensa di essere stata chiamata?

Il regime ha provato in quel periodo a inserire molte donne nelle posizioni di vertice, sia della Federazione che del governo. Mi sono resa conto dopo poco che erano donne che erano prive delle competenze necessarie a ricoprire quei ruoli, manovrate dagli uomini ai vertici. Come hanno dato questo incarico a me, allenatrice occidentale, secondo me anche per Cecilia è stato così. Autorizzare l’ingresso con un secondo obiettivo, che non è quello di permettere di documentare ciò che accade.

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