Molti lettori hanno risposto al nostro articolo sullo smart working. Ci sono capi sospettosi, divergenze sulla produttività, poche spiegazioni e qualche esempio virtuoso. Ecco le loro storie
- Dopo il lockdown è arrivata per moltissimi dipendenti la chiamata che li invitava a tornare in ufficio, in termini più o meno diretti, ma senza una motivazione della scelta da parte dei dirigenti.
- Spesso i capi si mostrano indisponibili verso i dipendenti che vorrebbero continuare a lavorare da casa, arrivando a definire lo smart working “cazzeggio”.
- Oltre al dubbio sull’inutilità del rientro, alcuni lettori sono preoccupati dall’opportunità del ritorno per via dei rischi sanitari.
Mandate le vostre storie a lettori@editorialedomani.it
Lo smart working non è per tutti. Lo confermano le tante risposte che ci avete inviato alla newsletter che abbiamo pubblicato sull’argomento. Molti sono rimasti interdetti dalla mancanza di motivazione del loro rientro, e che nessuno dei superiori si è preoccupato di approfondire le ragioni della scelta.
L’altro tema ricorrente è l’apparente inutilità del ritorno in ufficio: “Faccio esattamente le stesse cose che farei da casa e il controllo nei miei confronti è esattamente lo stesso che se fossi nel mio soggiorno”, ci scrive un lettore.
Le vostre esperienze, idee, proposte stanno arrivando copiose alla mail lettori@editorialedomani.it. Continuate a scriverci. Questo canale rimarrà aperto, vogliamo tenere viva l’attenzione e stimolare il dibattito sul tema.
Ecco alcune delle storie che abbiamo ricevuto.
Perché rientrare?
Lavoro in una grande azienda di moda toscana. Da fine giugno abbiamo ripreso a tornare in ufficio con gli ingressi contingentati (una settimana di ufficio e poi due di smart working), ma continuiamo a fare le riunioni su Teams pur stando tutti sullo stesso piano.
Si percepisce la volontà della proprietà di mantenere attivo lo stabilimento e l’indotto che lo circonda, ma so di colleghi che provengono da altre regioni e hanno dovuto mantenere un affitto per andare in ufficio una settimana su tre.
(27 anni)
La mia azienda, attiva nel settore delle comunicazioni, ci ha chiesto di rientrare due settimane fa. Per gli impiegati del mio livello non ci sarebbe necessità e dai capi non è arrivata nessuna motivazione ad accompagnare il rientro.
Certo, in ufficio è garantito il distanziamento sociale e almeno per quanto riguarda il turno serale ci è stato concesso di continuare a lavorare da casa, ma ci chiediamo ancora il perché del rientro.
(33 anni, Roma)
Siamo partiti in modo riluttante, almeno qua dove lavoro io, in un’azienda di medie dimensioni che non ha mai chiuso durante il periodo di lockdown: riluttanti i titolari e pure alcuni dipendenti, che pur potendo svolgere il lavoro da casa si accodano al sentiment del titolare.
Parlando ora per quanto strettamente mi riguarda, ho operato senza alcuna difficoltà o impedimento: la qualità del lavoro svolto, la produttività di ognuno sono facilmente identificabili. Tutti i termini sono stati rispettati e anzi, liberi di non credermi, addirittura in tempi più brevi rispetto al solito. Questo nonostante il titolare, non si sa bene in base a quali dati in suo possesso, dicesse che da casa “si lavora pochissimo”.
Dall’inizio di luglio e con la fine dell’emergenza (…) Stop! Tutti richiamati alla propria scrivania. Oddio, “tutti”, tranne alcuni tra i recalcitranti di cui sopra, che grazie alla vicinanza col titolare (…) continuano a lavorare parzialmente da casa.
Detto quanto sopra, la domanda che ne deriva è semplice, ma la risposta non riesco a darmela. Io sono qua, faccio esattamente le stesse cose che farei da casa e il controllo nei miei confronti è esattamente lo stesso che se fossi nel mio soggiorno.
Perché?
(Lettera firmata)
Dirigenti indisponibili
Sono un giovane avvocato e lavoro per un grosso studio legale internazionale con diverse sedi in tutto il mondo. Causa Covid ho dovuto lavorare per un periodo da casa. Ne ho beneficiato in quanto mi ero dovuto trasferire in un’altra regione per inseguire questo lavoro e con il lockdown ho potuto svolgere le stesse mansioni che svolgevo in ufficio tranquillamente a casa e vicino ai miei affetti più cari. Per quanto drammatico sia stato questo periodo per l’Italia e il mondo intero, ho riscoperto la bellezza di non cenare e dormire da solo ogni sera, bensì in compagnia dei miei affetti più cari.
Sono rientrato gradualmente in ufficio a partire da lunedì 6 maggio; inizialmente erano state date direttive dai piani alti di alternare le presenze fisiche in ufficio e di andare solo in caso di necessità, al fine di evitare assembramenti.
Si sono susseguite diverse modalità di comunicazione della presenza in ufficio, ma mai con chiare direttive circa la necessità o meno di presenza continua.
Dopodiché, dopo tre giorni continuativamente passati a casa a lavorare, uno dei soci senior mi ha verbalmente redarguito asserendo che lo smart working sia una enorme farsa, che è necessario venire in ufficio tutti i giorni e che le regole sanitarie all’interno dell’ufficio non hanno alcun valore. “Basta cazzeggiare” è stata la frase che più mi è rimasta impressa.
A fronte di questo inequivocabile messaggio è ripresa la solita, dispendiosa routine settimanale, in cui ogni “libero” professionista è fisicamente davanti alla sua scrivania per dieci ore di fila, in cui nessuno rispetta più l’obbligo di mettere la mascherina e in cui lo smart working viene visto come un cazzeggio.
Ci sarà un giorno anche da interrogarsi sull’assurdità di noi giovani avvocati a partita Iva, che lavoriamo in favore dei grossi studi legali d’affari in regime di monocommittenza, a cui viene chiesto di rispettare un accordo di esclusiva e che abbiamo gli stessi obblighi di un dipendente (orari, ferie, ecc.) ma nessuna tutela di alcun tipo.
(Lettera firmata)
Preoccupazioni post lockdown
Carissimi, non posso non scrivere, è un argomento che sta causando parecchia maretta. Lavoro per una grande banca nel centro di Milano e qualche anno fa avevano ristrutturato il nostro piano e il nostro modo di lavorare: ci hanno installato un’applicazione sullo smartphone aziendale per prenotare la scrivania ogni settimana.
Ci sono circa un terzo di scrivanie prenotabili, chi non la trova si siede in zone di passaggio, in cucina o su divanetti. Due giorni la settimana potevamo lavorare da casa. Una situazione così caotica, polli in batteria, e ogni giorno una scrivania diversa.
Poi è scoppiato il Covid-19 e ci hanno lasciato a casa. Ho saputo della morte di un collega di vecchia data, veniva da Milano sud con i mezzi. Ieri ci hanno comunicato che da settembre dovremo rientrare, almeno il 50 per cento dovrà essere presente e almeno un giorno la settima saremo obbligati a passarlo in ufficio. Ma prima dovremo firmare un’autocertificazione.
Io ho paura, molti di noi hanno paura. Non abbiamo certezze o sicurezza su nulla. C’è un solo bagno per le donne, verrà sanificato ogni volta che verrà usato? In ufficio stanno senza mascherina ma è tutto open space. Ho subito perdite e ho paura. So che ci vogliono far tornare per ripopolare il centro, il nostro sindaco l’ha scritto e detto ma non agisce nessuno, non ci sono le condizioni. Abbiamo anziani da accudire. Sono pietrificata, e non so cosa fare. Grazie che ve ne state interessando.
(Lettera firmata)
Noi di Microsoft Italia stiamo lavorando ancora tutti in smart working. A noi basta una connessione Internet, abbiamo tutto quello che ci serve nei nostri data center nel cloud, sappiamo quello che dobbiamo fare, il luogo da cui ci colleghiamo è ininfluente e lavoriamo in smart working (non telelavoro) da molti anni.
So che stanno riorganizzando gli uffici per il rientro dopo le ferie ma a ranghi ridotti, ruotando e andando solo quando strettamente necessario.
È il modello ibrido suggerito da Satya Nadella. Passare allo smart working al 100 per cento nel lungo periodo è pericoloso perché disgrega il tessuto sociale aziendale, ma far convivere pacificamente smart working e lavoro in sede è il nostro obiettivo possibile.
(Giorgio Cifani)
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