In molte struttura sono ancora in corso l’attività di ambientamento di bambine e bambini tra gli zero e tre anni. Un momento cruciale nello sviluppo del bambino di cui è necessario che i genitori – spesso costretti a barcamenarsi con gli orari del lavoro – abbiano piena consapevolezza
Quando si parla di nido d’infanzia e di pedagogia rivolta a bambine e bambini nella fascia tra gli zero e i tre anni bisogna inquadrare prima storicamente da dove si parte e di cosa parliamo, perché purtroppo la consapevolezza dell’importanza di un’educazione precoce di qualità sfugge ai più.
I servizi educativi, che dal 2017 con il D.Lgs.65 chiamiamo nidi d’infanzia, nascono in Italia come asili nido nel 1971 con la legge 1044, ed è Adriana Lodi, operaia, sindacalista, assessora al Lavoro e poi all’Assistenza e ai Servizi sociali, ad aprirne i primi a Bologna nel 1969 sul modello di quelli da lei visitati in Svezia, anticipando la legge nazionale ancora in discussione in Parlamento.
Bologna vive negli anni ’60-’70 insieme a Modena e Reggio Emilia un fermento nella rivendicazione dei diritti sociali delle donne, della loro partecipazione al mondo del lavoro e rispetto al loro ruolo all’interno della famiglia, e l’istituzione dei nidi si collega oltremodo a una nuova visione nascente di bambino, al suo diritto di sviluppo in senso olistico.
Si passa da una visione assistenzialistica — quella delle precedenti strutture, gli Onmi, che provvedevano all’esclusiva protezione e assistenza dei bambini — a una prima concezione pedagogica, comunque ancora debole tanto che lo scopo degli asili nido, come recita l’art. 1 della legge del 1971, rimane quello «di provvedere alla temporanea custodia dei bambini per assicurare un’adeguata assistenza alla famiglia e anche per facilitare l’accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale».
Per la prima volta si prevede, però, la presenza di personale qualificato all’interno del servizio educativo (art. 6), anche se bisogna aspettare fino al 2017 perché questa qualifica corrisponda a un titolo universitario e perché i servizi vengano riconosciuti educativi se di qualità.
La conquista dell’ambientamento
Avere ben chiari questi elementi ci serve sempre per capire le difficoltà correlate all’educazione dell’infanzia e prescolare in generale, che se da una parte sono strutturali all’interno dei servizi, che necessitano un complesso impegno politico, dall’altra sono ancora culturali. Che tipo di servizio educativo si aspettano le famiglie di oggi? Quale pensano che sia l’obiettivo di un nido d’infanzia?
Siamo a fine settembre e le scuole di ogni grado sono ormai entrate a regime con gli orari previsti, ma cosa sta succedendo nei nidi e nelle scuole d’infanzia? In molti servizi per l’infanzia l’ambientamento non è ancora completato e i genitori, ricattati da un sistema lavorativo competitivo, se ne lamentano, non sapendo molto spesso neanche cosa sia effettivamente questo ambientamento e perché venga svolto in un certo modo.
Era forse meglio quello che succedeva nelle Onmi, dove, come ci racconta Adriana Lodi, non c’era un ambientamento? Dove il bambino veniva infilato dentro una finestrella, preso dall’altra parte dello sportello da chi di dovere, spogliato completamente e rivestito con le vesti del nido? No. Lei, madre, porta via dopo pochi giorni suo figlio da quella struttura e si adopera per l’apertura di un nido educativo sul modello svedese.
Ritornando all’oggi e all’ambientamento, che è un momento cruciale nello sviluppo del bambino, ogni servizio educativo segue un modello differente e questo è legato a varie difficoltà: dalla governance, dal finanziamento e la disponibilità di personale, al difficile monitoraggio sul territorio per un confronto e una valutazione di buone pratiche, nonché la mancanza di un reale dibattito culturale aperto sull’infanzia.
L’ambientamento rappresenta per il bambino la prima separazione significativa dal contesto familiare e la prima delle tante esperienze di separazione che è portato a fare nell’arco di tutta la sua vita. Saper affrontare le separazioni con serenità, senza annullamenti, è un nodo di crescita fondamentale.
Due metodi
Sono principalmente due i metodi utilizzati per accogliere il nuovo bambino nella struttura: il primo è quello delle due settimane, detto anche tradizionale, che prevede che il bambino inizi a frequentare il nido per alcune ore al giorno con la presenza del genitore, nel quale vengono proposti dei distacchi dalla figura parentale in modo graduale fino a raggiungere alla fine delle due settimane — a volte tre — la presenza a tempo pieno da solo (Galardini, 2020). Questo è pensato per permettere al bambino di avere un’esperienza di conoscenza e di gioco insieme al caregiver, ma soprattutto per fargli vivere l’esperienza di una separazione graduale: se al terzo giorno il distacco dal genitore è di quindici minuti, al quarto sarà di mezz’ora, in maniera che il bambino possa più facilmente gestire la lontananza e sentirsi rassicurato nel successivo ricongiungimento. Ciò comporta sicuramente un sacrificio per i genitori, che devono assentarsi dal lavoro per due settimane consecutive.
Il secondo metodo è l’approccio dei tre giorni o svedese o partecipato, che si è affermato in Italia dal 2015 e prevede che il bambino e un caregiver trascorrano l’intera giornata al nido, fino a sei ore se quella sarà la fascia oraria del bambino, per tre giorni consecutivi, così da vivere in modo immersivo ambienti, routine e tutto il contesto educativo famiglia e bambino insieme. Il gruppo educativo avrà un ruolo propositivo ma soprattutto osservativo, il genitore avrà un ruolo attivo, perché sarà lui a cambiare il bambino, a condividere il momento del pasto e ad addormentarlo.
Dal quarto giorno, il bambino rimarrà al nido senza genitore, ma nei tre giorni precedenti avrà familiarizzato con i tempi, gli spazi e quelle educatrici con cui la sua figura parentale ha potuto confrontarsi e collaborare nella sua cura e nel gioco, e potrà fidarsi perché ha costruito un’esperienza positiva in quel contesto insieme alla sua figura di riferimento familiare.
I pianti ci saranno sempre, sia nel primo sia nel secondo metodo di ambientamento, ma quello che un educatore sa bene è che il pianto è una forma di espressione che va accolta, compresa e rilanciata. Per fortuna nel 2024 le Onmi non esistono più e i bambini hanno la possibilità di fare l’ambientamento, vivere un’esperienza positiva e intraprendere un percorso educativo di qualità.
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