Per la prima volta in Italia cinque agenti andranno a processo imputati per il reato di tortura
- Il processo sulle violenze commesse da cinque agenti ai danni di un detenuto nell’ottobre del 2018 sarà il primo procedimento giudiziario a vedere imputati per il reato di tortura membri delle forze dell’ordine.
- Patrizio Gonnella e la sua associazione per la difesa dei diritti dei detenuti, Antigone, si sono costituiti parte civile nel processo e chiedono che il ministero della Giustizia faccia altrettanto.
- Secondo Gonnella non si può parlare di «mele marce» e poi, di fronte a violenze di questo tipo, non prendere posizione pubblicamente o addirittura manifestare solidarietà agli agenti coinvolti, come ha fatto il leader della Lega, Matteo Salvini.
Il 18 maggio 2021 inizierà a Siena il primo processo in Italia che vede imputati membri delle forze dell’ordine per il reato di tortura. Cinque agenti della polizia penitenziaria sono infatti accusati di avere pestato un detenuto tunisino, riservando alla vittima un «trattamento inumano e degradante», durante il suo trasferimento di cella avvenuto l’11 ottobre 2018 nel carcere di Ranza a San Gimignano.
L’associazione Antigone, nata per difendere i detenuti e presieduta dal giurista Patrizio Gonnella, ha seguìto fin dall’inizio la vicenda e ha chiesto e ottenuto di costituirsi parte civile insieme ad altre sei associazioni. «Normalmente non entriamo nei procedimenti ordinari, ma il processo di Siena riguarda i diritti di tutti non solo della vittima»: spiega Gonnella che ricorda come Antigone sia stata fin dal 1998 in prima linea per l’istituzione del reato di tortura «un reato la cui persecuzione è nell’interesse della comunità perché come altri reati come la corruzione segnala il malfunzionamento nella macchina statale».
«La politica prenda posizione»
Il presidente di Antigone invita quindi le istituzioni pubbliche a costituirsi anch’esse parte civile nel processo di Siena. «Credo che il ministero della Giustizia darebbe un grosso segnale se si interessasse pubblicamente di questa vicenda come d’altronde ha già fatto quando si è costituito nel processo sui depistaggi del caso Cucchi».
«In questa lotta non dovrebbero esistere le due parti, ma solo un unico fronte per la legalità. Poi ovviamente la giustizia farà il suo corso anche se dalle registrazioni il pestaggio del detenuto è abbastanza evidente». Quello di Siena potrebbe non essere l’unico processo che vede imputati membri delle forze dell’ordine per il reato di tortura anche i casi dei pestaggi dei detenuti avvenuti nelle carceri di Torino e Santa Maria Capua Vetere, episodio quest’ultimo già raccontato da Domani «presentano elementi simili al procedimento giudiziario in corso nel tribunale toscano».
Gli errori di Salvini e Meloni
Un’altra similitudine tra i casi di Santa Maria Capua Vetere e quello di San Gimignano è stato l’arrivo del leader della Lega, Matteo Salvini, fuori dai penitenziari per manifestare la propria solidarietà ai poliziotti indagati.
Secondo Gonnella, «è inammissibile vedere politici come Salvini manifestare a priori solidarietà ad agenti indagati per fatti così gravi. Comportamenti del genere rischiano di far saltare anche la teoria delle mele marce che rovinano la reputazione dei moltissimi agenti onesti di questo paese. Che messaggio di condanna di queste presunte mele marce arriva infatti se rappresentanti politici arrivano ad esporsi pubblicamente per manifestare loro solidarietà?».
Un altro problema su questo fronte è quello del comportamento dei sindacati di polizia che hanno spesso minimizzato o negato le violenze commesse dagli agenti arrivando a giustificarle dicendo che sono colpa della carenza di personale. «Anche questo è un comportamento gravissimo: in un ufficio postale nessun impiegato è autorizzato a picchiare i clienti solo perché è sovraccarico di lavoro. Fortunatamente moltissimi agenti sono fuori da queste dinamiche neo corporativiste».
Tra i politici c’è anche chi ha messo in dubbio l’utilità del reato di tortura. È il caso della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che nel 2018 disse che il reato «non fa fare agli agenti il proprio lavoro». «Sono affermazioni pericolosissime che denotano fra l’altro una certa nostalgia per i tempi in cui la tortura era praticata normalmente dalle forze dell’ordine. Il fascismo usava questi metodi e i loro danni si possono trovare in ogni libro di storia – dice Gonnella –. I politici di oggi, invece di rimpiangere certi periodi bui della storia del nostro paese, dovrebbero finalmente prendere una posizione pubblica in processi come quello di Siena, dove non è l’accusa, ma il reato a infangare il buon nome delle istituzioni».
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