Per il provveditore delle carceri della Campania, Antonio Fullone, inizialmente erano stati chiesti gli arresti domiciliari. La misura era stata proposta dalla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere guidata da Maria Antonietta Troncone, che ha coordinato l’indagine sui pestaggi insieme al procuratore aggiunto Alessandro Milita, con i pubblici ministeri Daniela Pannone e Alessandra Pinto. La richiesta era stata poi tramutata nell’interdizione dai pubblici uffici dal giudice per le indagini preliminari, il gip Sergio Enea.

Come rivelato nell’inchiesta di Domani, Antonio Fullone è accusato di aver disposto «quale autore, determinatore, organizzatore e regista» una perquisizione straordinaria generale nei confronti di circa 292 persone recluse alla Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere; «perquisizioni personali, arbitrarie e abusive, perché operate al di fuori dei casi consentiti dalla legge». Si legge nell’atto d’accusa: «configurandosi, quindi, come un provvedimento dispositivo orale, emanato a scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere».

Depistaggi

«Il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così», dice Antonio Fullone, nelle parole raccolte dalle intercettazioni. Le ha rivolte al suo superiore, Francesco Basentini: il magistrato voluto dall’ex ministro Alfonso Bonafede a capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

«Hai fatto benissimo», gli rispondeva Basentini che non è indagato nell’inchiesta condotta dai carabinieri di Caserta e che ha coinvolto, finora, 117 persone, tra funzionari e agenti della polizia penitenziaria.

Fullone, in concorso con altri funzionari, è accusato di maltrattamenti, favoreggiamento personale e falso in atto pubblico, con l’aggravante di aver commesso un reato per occultarne un altro. È fra gli accusati di avere messo in atto una «deprecabile opera di depistaggio». «Omettendo – scrivono ancora i magistrati campani – di denunciare i fatti alla Procura della Repubblica, e invece procedendo a richiedere la redazione di atti postumi e falsi, depistanti, diretti ad occultare le proprie e altrui responsabilità, nonché abdicando alle sue funzioni di vigilanza, ispettive e disciplinare»; nonostante – sempre secondo i giudici – Fullone avesse «appreso, almeno a partire dal 7 aprile 2020, le generalizzate violenze praticate ai danni dei detenuti del Reparto Nilo».

I diritti dei detenuti

Le accuse sono ancora tutte da dimostrare, ma gettano un’ombra inquietante sulla carriera di un alto funzionario dello stato, considerato finora come particolarmente impegnato nella tutela dei diritti dei detenuti. A Taranto, dove Fullone è nato e cresciuto, la notizia delle violenze di Santa Maria Capua Vetere ha colto un po’ tutti di sorpresa. Nel mondo della sinistra, soprattutto. «Fullone a Taranto è santificato da tutti», dice un attivista di uno dei gruppi extraparlamentari della sinistra cittadina. Chi ne ricorda l’impegno nel recente passato all’interno dei gruppi organizzati della gradinata dello stadio Erasmo Iacovone, tra i fondatori del club Tifo e Amicizia 1991, è altrettanto stupito.

«Non solo perché si tratta di un uomo impegnato da sempre nella difesa dei valori di lealtà e umanità nella società, in generale, e nello sport, in particolare, ma anche perché è sempre stato sensibile anche alla tematica della repressione dei comportamenti violenti delle forze dell’ordine», racconta uno storico tifoso del Taranto calcio. Ricorda come, in una trasferta di qualche anno fa, in uno dei campi polverosi delle serie minori proprio in Campania, «Fullone sia stato colpito in prima persona, duramente, dalle manganellate della celere contro i tifosi tarantini». Un ex detenuto del carcere di Taranto, dove Antonio Fullone è stato vice-direttore fino a qualche anno fa, lo descrive come «un funzionario particolarmente attento all’ascolto dei bisogni dei carcerati».

Una visione garantista

Un dipendente del ministero della Giustizia, che con Fullone ha condiviso un pezzo di vita lavorativa e che ci chiede di restare anonimo, lo descrive come «una persona particolarmente illuminata. Aveva una visione dell’istituto penitenziario che non era di certo il modello di Guantanamo». «Stento ancora a crederci», dice. «Ho visto le immagini pubblicate da Domani e da dipendente di quella stessa amministrazione credo che quegli agenti andrebbero rimossi sùbito definitivamente dall’incarico, senza dover aspettare il processo. Continuo a credere, però, che Antonio Fullone sia una persona per bene, da rispettare. Almeno per come l’ho visto operare in passato, nelle carceri dove ha prestato servizio. L’impressione è che possa aver pagato anche colpe di altri, di chi sta sopra di lui, agli alti livelli, e di chi sta sotto, dei picchiatori. Ovvero di quegli agenti che credono di essere impuniti perché fanno parte dello stato. Posso dire che ad Antonio personaggi del genere non sono mai andati bene». E in verità dell’impegno per i diritti umani delle persone recluse se ne trova traccia anche nei numerosi interventi a convegni e seminari a cui Fullone, negli anni, ha partecipato.

Carcere e giustizia

C’è una pubblicazione collettanea curata dall’ex sottosegretario alla Giustizia, esponente dei Verdi, Franco Corleone, che si intitola “Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione”. All’interno, Antonio Fullone si sofferma «sulla necessità di delineare quegli interventi che possono incidere positivamente sulla quotidianità detentiva»; e si chiede, inoltre, in merito alle possibili riforme penitenziarie: «che cosa resterà per la qualità della vita detentiva, degli spazi della formazione e del lavoro, della relazione sociale ed affettiva, degli spazi culturali e sportivi». Durante “Carceri e diritti”, un convegno organizzato di recente in Campagna, Fullone dice di rifiutare «l’idea del carcere come terreno di scontro politico. Perché noi ospitiamo fragilità, persone vulnerabili, e dunque a loro l’emotività non fa di certo bene». Ha poi aggiunto: «Occorre intervenire piuttosto a livello normativo per riqualificare gli ambienti; è necessario un intervento forte sul concetto di spazio, servono investimenti per rendere i luoghi dignitosi, prima di tutto». Una visione che però stride fortemente con le prove raccolte dagli inquirenti sull’«orribile mattanza».

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