Banchieri, governi e regolatore europeo condividono la responsabilità della crisi irrisolta del sistema bancario
- La crisi è strutturale, non ciclica; la pandemia l’ha solo resa più evidente. Lo indica il rapporto tra il valore di mercato e il patrimonio netto contabile delle banche. Questo rapporto per l’indice delle banche dell’Eurozona ha toccato il suo massimo a 2,13 a inizio 2007, per poi precipitare a 0,43 nel febbraio 2009.
- Da allora non è più risalito stabilmente sopra l’unità, oscillando intorno a una media di 0,60, segno che le banche non sono state più in grado di garantire una redditività prospettica sufficiente a compensare gli azionisti per il rischio.
- Oggi il rapporto ha toccato un nuovo minimo a 0,38. Per esempio, il patrimonio di Unicredit vale in Borsa quasi 45 miliardi in meno di quello a bilancio.
Il dibattito che ha accompagnato l’offerta di Intesa Sanpaolo per Ubi, la difficoltosa ricerca di un acquirente per la quota dello Stato in Monte Paschi e il progetto del governo di far nascere una banca pubblica per il Sud dal fallimento della Popolare di Bari sono tutti elementi che evidenziano la mancanza di una chiara strategia per far uscire il nostro sistema bancario dallo stato di debolezza in cui si trova. Nè sembra esserci la consapevolezza che la pandemia da Covid ha solo aggravato una crisi delle banche dell’Eurozona iniziata nel 2008 e mai veramente risolta.
Lo dimostra l’andamento dei titoli bancari in borsa: chi avesse investito 100 euro nell’indice delle borse dell’Eurozona (EuroStoxx) a metà 2007, alla vigilia della grande crisi globale, oggi ne avrebbe persi 19 (trascurando i dividendi); ma ben 83 se li avesse investiti nell’indice delle banche.
La crisi è strutturale, non ciclica; la pandemia l’ha solo resa più evidente. Lo indica il rapporto tra il valore di mercato e il patrimonio netto contabile delle banche. Poiché il patrimonio è la somma algebrica di attività e passività, e le passività sono certe, un valore di mercato inferiore al patrimonio indica il minor valore che gli investitori attribuiscono agli attivi contabili della banca.
Questo rapporto per l’indice delle banche dell’Eurozona ha toccato il suo massimo a 2,13 a inizio 2007, per poi precipitare a 0,43 nel febbraio 2009. Da allora non è più risalito stabilmente sopra l’unità, oscillando intorno a una media di 0,60, segno che le banche non sono state più in grado di garantire una redditività prospettica sufficiente a compensare gli azionisti per il rischio.
Oggi il rapporto ha toccato un nuovo minimo a 0,38. Per esempio, il patrimonio di Unicredit vale in Borsa quasi 45 miliardi in meno di quello a bilancio (è l’8 per cento dei prestiti ai clienti); e quasi 52 e 40 miliardi in meno, rispettivamente, quelli di Societé Generale e Deutsche Bank (12 e 7 per cento delle loro enormi posizione in titoli e derivati).
Le colpe dei banchieri
Banchieri, governi e regolatore europeo condividono la responsabilità della crisi irrisolta del sistema bancario. I banchieri non si sono accorti in tempo che l’avvento di internet avrebbe reso obsolete le reti fisiche di sportelli che ancora oggi costituiscono il cardine dell’organizzazione di una banca tradizionale.
Gran parte dei processi bancari, dei prodotti e dei servizi offerti, sono facilmente automatizzabili in quanto omogenei, ripetitivi, uniformi e dematerializzati. Invece di sfruttare le potenzialità di internet e delle nuove tecnologie, hanno lasciato che fossero le imprese non bancarie e le banche non tradizionali a cogliere queste opportunità.
La maggiore banca italiana, Intesa, vale oggi meno della metà del suo patrimonio, mentre MutuiOnline e Nexi (carte di credito e sistemi di pagamento) hanno un multiplo di 7,6, quello medio di Banca Mediolanum e Banca Generali è 3, e quello di Fineco 4,6 (rispetto allo 0,26 di Unicredit che l’ha ceduta per pagare dividendi).
A peggiorare le cose, è venuta meno la capacità delle banche di valutare il rischio di credito, troppo spesso basato su garanzie e non sulle prospettive reddituali del debitore; a cui si sono aggiunti i troppi crediti erogati in modo clientelare.
Infine, le banche hanno preferito sfruttare la grande liquidità iniettata dalla Bce (dal 2006 a oggi il suo attivo è aumentato di ben 5.400 miliardi) per lucrare un facile guadagno dal differenziale di rendimento con i titoli di stato (come le banche italiane) o finanziare enormi portafogli di derivati (come quelle francesi).
Le colpe di governi e regolatori
Ma la responsabilità maggiore è dei governi e del regolatore. In Europa, a differenza degli Usa, non si è capito che quella del 2008 era una crisi sistemica e poteva essere affrontata con successo solo con un intervento coordinato tramite una bad bank europea che assorbisse tutti i crediti deteriorati e le posizioni in titoli e derivati che non potevano essere smobilizzate sul mercato.
L’intervento pubblico doveva poi essere vincolato a cambi del management e fusioni, nazionali e transfrontaliere, per recuperare redditività ed efficienza tramite economie di scala e tagli dei costi.
Si è fatto l’opposto. La crisi delle banche è rimasta latente, per riemergere in tuta la sua gravità con il Covid. Ogni governo europeo è andato per conto suo. E la Commissione ha varato una direttiva sulle risoluzioni bancarie il cui principale obiettivo è però impedire gli aiuti di stato, escludendo quindi i casi di crisi sistemica; e di fatto impedendo le fusioni transnazionali. Così il sistema bancario europeo affronta la crisi da Covid ancora troppo frammentato: mentre le prime cinque banche americane controllano il 37 per cento dei prestiti e depositi del sistema, nell’Eurozona questa percentuale scende al 18 per cento.
I governi italiani non hanno mai affrontato in modo organico la crisi del nostro sistema bancario, limitandosi agli interventi dettati dall’emergenza: elargendo doti al compratore come per le Venete, e adesso, pare, con Mps; finanziando gli acquirenti delle banche coi crediti di imposta (Banca delle Marche e Popolare Etruria); fornendo l’intero capitale (implicitamente garantendone il debito) di Amco, la società del Mef preposta all’acquisto delle sofferenze a prezzi anche superiori a quelli di mercato; o intervenendo direttamente (Popolare di Bari). Tutti i governi poi temono le ricadute occupazionali delle fusioni, rinviando soltanto la soluzione del problema.
Il regolatore europeo, poi, ha sempre perseguito l’obiettivo prioritario della patrimonializzazione, mettendo in secondo piano efficienza e redditività, salvo poi sussidiare il conto economico delle banche con sempre maggiori finanziamenti a condizioni sempre più vantaggiose.
Effetto Covid
Con il Covid, la crisi si è aggravata. La Bce ha opportunamente invertito rotta, permettendo alle banche una leva maggiore, allentando i criteri contabili, riducendo le richieste di capitale e promuovendo esplicitamente le fusioni (come Intesa-Ubi e Bankia-Caixa) al fine di sostenere la loro redditività. Ma i governi, di fatto, continuano a impedire le fusioni transfrontaliere, preoccupati sia per eventuali futuri interventi a tutela dei depositi dei cittadini stranieri sia, come detto, per le ricadute occupazionali. E hanno imposto alle banche di finanziare le imprese colpite dal Covid, surrogando l’intervento pubblico, pur sapendo che molte non saranno mai in grado di onorare i propri debiti.
Ancora una volta, non è stata pensata una soluzione a livello europeo per assorbire le inevitabili, future sofferenze che i bilanci delle banche non potranno sostenere, lasciando l’iniziativa ai governi nazionali. Cosa voglia fare l’Italia al proposito, non è chiaro. Così però si rischia di creare banche zombie, che finanziano imprese zombie. Con un costo enorme in termini di crescita della produttività per il Paese.
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