Tre anni fa era il primo italiano a giocare una finale a Wimbledon. Una lunga serie di guai fisici lo hanno poi fatto scivolare fuori dai primi 100 al mondo, proprio mentre Jannik Sinner completava la sua ascesa. Vincenzo Santopadre è il coach che lo aveva costruito per portarlo in alto, Francisco Roig gli ha aggiunto colpi nuovi per recuperarlo. A cominciare dal rovescio. Ogni tanto giocato a una mano
Guardatelo in faccia. Nemmeno il professor Paul Ekman, lo studioso della mimica facciale le cui tesi diedero vita a una serie tv all’epoca sorprendente (Lie to me), troverebbe traccia di un atteggiamento menzognero. Il volto di Matteo Berrettini oggi, a 28 anni, trasuda una serenità (se non fosse un termine pericoloso si potrebbe addirittura parlare di gioia) di cui da tanto tempo si era persa memoria.
E l’origine di questa postura non sta solo nel fatto che nel 2024 Matteo ha vinto tre tornei (Marrakech, Gstaad e Kitzbuehel più la finale di Stoccarda) ed è tornato leader in Coppa Davis trascinando l’Italia alla fase finale che si svolgerà a Malaga in novembre. Al nuovo stato d’animo contribuisce, è vero, anche la quasi realizzazione del progetto di conquistare una classifica (adesso è risalito al numero 45) che gli permetta di entrare nel tabellone principale del prossimo Australian Open come testa di serie.
Ma il ritrovato “sorriso Berrettini” appare più una questione interiore, una ritrovata soddisfazione di impegnare il proprio tempo nell’attività che si è scelta come impresa della vita.
E il sorriso ha trovato pure un’immagine simbolo: quella di un passante di rovescio a una mano (vincente) che ha scagliato contro Van De Zandschulp nel primo turno del torneo di Tokyo. Un colpo che per lui, da sempre interprete del rovescio bimane, era difficile anche solo da immaginare. Non poteva essere che un rovescio il simbolo del “nuovo” Berrettini: un rovescio in una carriera che è stata fin qui un alternarsi di successi e, per l’appunto, di rovesci.
Il nuovo coach
Per comprendere tutto bisogna innanzitutto fare un nome. Quello di Francisco Roig, il coach catalano che da un anno ha sostituito, nella cabina di regia di Matteo, Vincenzo Santopadre, l’uomo che un giorno di poco meno di vent’anni fa scrutò il ragazzino che gli si era palesato davanti e si domandò: con questo cosa mi invento? Il ragazzino in questione era lungo e magro, perfino mingherlino.
La sua struttura fisica già annunciava i guai che sarebbero arrivati in seguito: se su una struttura del genere carichi muscoli che generino potenza la struttura rischia di collassare una volta entrata nell’età adulta. Se non cerchi la potenza quel corpo si dovrà rassegnare a praticare qualche altro sport e magari non di alto livello, perché senza potenza non vai da nessuna parte. Anni dopo, quando già Matteo era un top player, Vincenzo ebbe a dire: «Ogni volta che Matteo inizia una partita ci facciamo il segno della croce. Speriamo che non succeda nulla ma è una speranza, per l’appunto». E la malasorte con Matteo ci si è messa di buzzo buono.
Due esempi su tutti: il crac alle Finals del 2021, la lesione addominale che avrebbe condizionato pesantemente l’anno successivo e che fu immortalata da uno scatto fotografico alla Robert Capa: lui sdraiato sul fianco con lo sguardo perso nel vuoto. E poi Us Open 2023 con la caviglia che a causa di un movimento laterale pesante (si tenga a mente questo dettaglio) si distorce in modo spaventoso, legamenti lesi, un altro lungo stop. E la voglia di giocare a tennis, di faticare per poi quasi non riuscire a capitalizzare tanta fatica, visto che arriva subito un altro infortunio, che scivola via come la nebbia delusa e sconfitta di un Venditti d’antan. Matteo avrebbe poi tagliato il cordone ombelicale con il coach-padre Vincenzo nel tentativo di provare a inaugurare una pagina nuova, non certo perché fossero venute meno la fiducia e la stima reciproca. E al suo fianco è arrivato Francisco Roig.
Il che vuol dire, in sostanza: vent’anni di lavoro con Rafa Nadal. Se vogliamo, un giocatore agli antipodi rispetto a Berrettini: una macchina da guerra che era diventata tale soprattutto grazie al movimento degli arti inferiori. Mantra di Francisco Roig: «Ciò che conta veramente è come si arriva a colpire la palla, non tanto l’esecuzione del colpo». Un mantra davanti al quale non è difficile immaginare, anche senza essere il professor Ekman, quale sia stata l’espressione facciale di Matteo: muovermi? Spostarmi? Dopo una vita passata a cercare di diventare il massimo interprete del tennis moderno che in pratica si dipana in due atti, servire forte e chiudere col dritto? In realtà proprio nel “movimento” che evoca quello che era il credo Heriberto Herrera nel calcio a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, c’era l’evoluzione di cui, pur nei limiti che il fisico impone, Matteo avvertita il bisogno. Un nuovo progetto da inseguire. Anche più coraggioso dei precedenti, se possibile.
Meglio il martello
E poi c’era il rovescio. Santopadre aveva in merito le idee chiare: inutile insistere su un colpo che il suo poulain non avrebbe mai reso risolutivo. Assai più utile lavorare sul dritto in modo da renderlo un’arma impropria, un hammer, un martello in grado di chiudere i punti senza dover troppo far fede sul movimento.
Al massimo si poteva puntare ad avere un rovescio in slice che fosse solido tanto quanto bastava per infastidire chi c’era dall’altra parte della rete. E non si può dire che i due non avessero raggiunto l’obiettivo: ma ogni avversario sapeva bene che una volta superato l’ostacolo della risposta al servizio ed essersi opposto alla sua mazzata di dritto sarebbe bastato spostare il gioco sull’altra diagonale per iniziare un discorso diverso.
L’uomo dei vent’anni con Nadal ha allontanato dalla testa di Matteo molte paure, ha infuso nella stessa quel desiderio che pareva scomparso e che è stato la testata d’angolo della vita sportiva di Rafa, e ha portato il suo nuovo allievo a lavorare sul rovescio. Con due obiettivi: rendere quello in slice più solido, continuo e profondo in primo luogo. E poi migliorare quello piatto giocato a due mani, evitare che si rivelasse un assist per il competitor, fare in modo che portasse qualche punto. E se poi, alla bisogna, si arriva a dover staccare una mano e tentare il passante con una mano sola perché no? Almeno ci divertiamo, deve aver detto Roig.
Il fatto che Berrettini sia stato il trascinatore in una formazione azzurra di Davis orfana di Sinner e Musetti non deve sorprendere più di tanto. E detto per inciso ancora meno deve stupire che Volandri non lo abbia inserito nelle preconvocazioni per Malaga: le “preconvocazioni” sono null’altro che pura comunicazione o marketing, se preferite. Si inseriscono dei nomi che poi possono essere cambiati, si dà visibilità all’uno o all’altro che poi a Malaga potrebbero anche non esserci.
Matteo, in questa fase della sua vita, anche grazie al rovescio, vuole lasciarsi alle spalle i rovesci e godersi fino in fondo il ruolo di grande vecchio (vecchio!), di colui il quale ha aperto una strada su cui poi hanno camminato tutti gli altri italiani che con lui hanno abbattuto la nomea che i maschietti (le ragazze quel tabù lo avevano già abbattuto da tempo) se vincevano era per pura casualità ma a certi livelli non ci sarebbero arrivati mai. Matteo (che oggi a mezzogiorno giocherà contro Arthur Fils) sa che il suo fisico è un compagno bizzoso: ma rapportarsi a esso ora è per lui più facile. Perché invecchiare non sempre è un danno.
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