Joban era un bracciante indiano residente a Bella Farnia nel Comune di Sabaudia (LT). Si è suicidato il 6 luglio 2020 a causa delle condizioni di irregolarità e di sfruttamento nelle quali era precipitato, e della speculazione operata dal suo datore di lavoro e caporale in seguito alla regolarizzazione promossa dal governo italiano con l'art. 103 del decreto Rilancio (D.L. n.34/2020)
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.
Intervista immaginata a Joban Singh, bracciante indiano residente a Bella Farnia, nel Comune di Sabaudia (LT) e suicidatosi il 6 luglio 2020 a causa delle condizioni di irregolarità e sfruttamento nelle quali era precipitato e della speculazione operata dal suo datore di lavoro e caporale in seguito alla regolarizzazione promossa dal Governo italiano con l'art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n.34/2020).
Buongiorno Joban, come stai?
«Sat Sri Akal. Ti saluto come ci salutiamo noi indiani del Punjab. È importante non perdere la cultura e il linguaggio d'origine. Ora, devo dirti la verità, sto bene. Non vivo più quell'incubo chiamato sfruttamento e caporalato. Ho passato anni difficili, alle dipendenze di un padrone italiano e di un caporale indiano che volevano solo fare i soldi sulla pelle di noi braccianti. Ero anche sotto ricatto di un trafficante indiano al quale dovevo molti soldi e che cercavo di ripagare attraverso il mio lavoro da bracciante. Mi ero perduto in un circuito criminale pieno di lupi che cercavano di sbranarmi. Sono stati gli anni più difficili della mia vita. Ora però, te lo ripeto, sto bene».
Andiamo con ordine. Raccontaci in primis da dove vieni e perché hai deciso di partire proprio per l'Italia per giungere in provincia di Latina
«Sono nato in Punjab, una regione molto importante dell'India al confine con il Pakistan, in una famiglia di agricoltori, da sempre molto religiosi e grandi lavoratori. Il Punjab è detto anche il “granaio dell'India”. Non abbiamo mai sofferto la fame o la povertà, e te lo può confermare anche mio padre con il quale ora finalmente mi sono ricongiunto. Ma abbiamo subito un lento processo di impoverimento per via delle varie crisi economiche che hanno investito il mio paese, per le riforme agricole che sono state imposte a volte dalle grandi agenzie della globalizzazione economica e di una costante perdita di status per via degli investimenti che nella nostra città molte famiglie a noi vicine potevano permettersi grazie alle rimesse economiche dei loro figli emigrati in Occidente e in particolare negli Stati Uniti, Canada ed Europa. Non ho scelto liberamente la provincia di Latina. Non sapevo neanche l'esistenza di questa provincia e delle sue caratteristiche quando vivevo in India. Mi è stata prospettata come meta d'arrivo del mio viaggio dal trafficante indiano che convinse me e la mia famiglia della possibilità che avevamo di risolvere alcuni nostri problemi economici e di diventare benestanti come tutti gli altri andando a vivere e lavorare proprio nell'Agro Pontino. Quel trafficante era un nostro amico. Non lo abbiamo mai inteso come pericoloso. Proveniva dal nostro villaggio e lo conoscevamo da tempo. Si è offerto di fornirci alcuni servizi fondamentali come il biglietto aereo, il visto per l'Italia, il passaggio da Roma Fiumicino verso Sabaudia, un posto letto in una abitazione presso il residence Bella Farnia Mare e infine un posto di lavoro come bracciante presso un'importante azienda agricola locale. Tutto questo per circa 10 mila euro. Per noi erano molti soldi ma valeva la sfida del viaggio e del lavoro per riuscire finalmente a vivere più serenamente nel nostro paese, investendo i risparmi nella nostra casa e facendo anche sposare le mie sorelle. Quella promessa, risultata vera fino al mio arrivo a Sabaudia, si è infine dimostrata una trappola per via delle condizioni di lavoro che mi sono trovato a vivere in quella azienda. Era una azienda enorme, il padrone era ricchissimo. Alcuni affermavano che fosse vicino ad un clan mafioso ma non ne ho la certezza. Gira con auto da centinaia di migliaia di euro. Non sa cosa sia la povertà. Eppure dentro quella azienda e per via dello sfruttamento io ho trovato l'inferno. È bene ricordarlo a tutti voi. Non bisogna più parlare di caporalato ma di padronato. Se io sono stato sfruttato è stato per colpa del padrone che mediante il caporale mi ha fatto precipitare in una trappola che mi ha disintegrato. Ma in azienda a comandare è il padrone. Il caporale se assume un ruolo e una funzione è perché egli viene individuato, selezionato e investito di questo ruolo dal padrone. Certo esistono anche imprenditori seri ma io sono la prova di dove può portare la strada del padronato e dello sfruttamento in un Paese democratico ed economicamente sviluppato come l'Italia».
Appena arrivato a Sabaudia sei andato ad abitare al residence Bella Farnia Mare. Cosa hai trovato e come ti sei trovato in quel luogo?
«Vivevo in un appartamento in una zona abbastanza pulita e circondato da molte famiglie italiane. Però in quel residence i problemi sono diversi, a partire da alcuni indiani che si pensano capi ma che nessuno ha eletto e voluto. Ed anzi loro sono parte del problema. Si pensano portavoce ma sono solo dei ladri, approfittatori e speculatori. Ora lo posso dire senza avere problemi. Alcuni di loro hanno squadre di giovani indiani che spediscono a picchiare quegli indiani che non stanno ai loro ordini. Ti pare che un portavoce seri si possa comportare così? E non vale solo per Sabaudia. Nessuno ha mai convocato una votazione libera, non ci sono candidati e però ci sono vari capi, presidenti e rappresentanti. È una corsa al potere e una volta raggiunto si fanno affari d'oro, ancora sulle nostre spalle. Un giorno si dovrà raccontare nel dettaglio la storia di questi capi e leader e dei loro portaborse, a volte mediatori senza dignità, che fanno il doppiogioco e tradiscono anche loro il popolo indiano. Poi in quell'area mancano servizi stabili, sociali e culturali, ed esiste un sistema di spaccio che sta crescendo».
Ci racconti la tua giornata di lavoro?
«Ho lavorato per diverse aziende prima dell'ultima. In genere, tranne alcune eccezioni, si lavora sempre nello stesso modo. Noi indiani lavoravamo per esempio 26 giornate al mese e il padrone ne registrava in busta paga appena 4. Oppure lavoravamo 12 ore ne registrava 6. Ovviamente con la complicità dei suoi commercialisti e avvocati. Tu immagina di lavorare 26 giorni al mese per 12 ore al giorno ma di ricevere una busta paga di 400 euro. A volte il padrone o il caporale per lui ci dava anche 200 o 300 euro a nero ma era tutto qui. Con quei soldi dovevi vivere, pagare l'affitto, le bollette, mandare i soldi a casa ecc. E per colpa di queste pratiche e delle leggi dello Stato italiano, io che sono entrato con un visto regolare sono diventato un irregolare perché non ho potuto rinnovare il mio permesso di soggiorno. Insomma da regolarmente soggiornante e regolarmente sfruttato, sono diventato un soggiornante irregolare e gravemente sfruttato. Eppure la vostra Costituzione e tutta la tradizione democratica del vostro Paese è fondata sul principio del lavoro regolare quale sistema di emancipazione dalla povertà e dalla ricattabilità. Con me è avvenuto, proprio da voi, il contrario. Sono arrivato regolarmente per lavorare, ho lavorato e sono diventato irregolare prima e povero e sfruttato dopo. La corda al collo me l'avete messa voi».
E nella tua ultima azienda?
«Oggi sorrido. Posso permettermelo. Guarda dove sono. Invece quando lavoravo dentro quelle serre, nella raccolta dei ravanelli, mi sentivo morire, sia per la fatica che per lo sfruttamento che percepivo ma di cui non ero pienamente consapevole come ora. Era una umiliazione continua. Il padrone non lo vedevo quasi mai. Ci gestiva il caporale indiano. Eravamo in prevalenza uomini ma c'erano anche donne, spesso indiane e rumene. Girava voce che il padrone chiedesse ad alcune di loro di passare la notte con lui. Per questo un giorno pagherà. Da voi o qui, ma pagherà. Per questi crimini prima o poi la giustizia arriva. Io andavo a lavorare con un amico che aveva l'auto oppure a volte con la bicicletta. Erano circa quindici chilometri da casa mia. Al ritorno, dopo 10 o 12 ore di lavoro, farsi quei quindici chilometri era davvero faticoso. E questo nonostante la mia giovane età. Nelle serre ero sempre in ginocchio. Il caporale invece era sempre in piedi accanto a noi. Si raccoglievano i ravanelli stando piegati con la schiena. I dolori erano tremendi e colpivano le ginocchia, la schiena, il collo, le mani, le caviglie e anche gli occhi per via della terra e delle varie sostanze che ci investivano. Il caporale si appropriava di una parte dei mazzetti che raccoglievamo. Li faceva risultare raccolti da lui e per quelli veniva ulteriormente pagato dal padrone. Noi restavamo in silenzio perché altrimenti non avremmo più lavorato in quella azienda e anche in quelle con le quali il padrone faceva affari. Poi c'erano anche altre produzioni orticole come le melanzane, zucchine, meloni e cocomeri. Tutte certificate dicevano da società europee importanti. Ma io di ispettori non ne ho mai visti. Ho visto solo braccianti immigrati piegati a raccogliere, piantare, manutenere le serre, chiedere per favore il pagamento mensile, riceverlo solo in parte e un'altra parte in nero, respirare quegli odori nauseabondi di chimica che intossicava i polmoni e i pensieri. Qualcuno faceva turni anche notturni. Quel padrone italiano aveva un amico altissimo e un altro che aveva un noceto. Erano una cricca del malaffare».
Arriviamo a quei terribili giorni
«Avevo ricevuto una notizia bruttissima. Mio padre in India era morto. Mia madre e le mie sorelle erano rimaste sole. Per noi indiani rispettare i genitori è importantissimo. Si vive grazie a loro e quando muoiono ci si deve assumere la responsabilità della famiglia che resta. Ma io non potevo farlo. Ero in Italia a lavorare e a sputare sangue per arricchire il padrone. Avevo ogni giorno la schiena che mi faceva male e il cuore anche, dopo quella notizia. Ma forse per volere di Dio, che ho pregato tanto, avevo una via d'uscita. Il Governo italiano emanò la regolarizzazione per quelli che, come me, non avevano un permesso di soggiorno e un regolare contratto. Improvvisamene spuntava il sole. Ho preso informazioni. Mi sono fatto coraggio e chiesi al caporale indiano di avviare per me la regolarizzazione. Sapevo che il datore di lavoro avrebbe dovuto pagare circa 500 euro e io circa 150. Quel padrone sfruttandomi mi aveva rubato migliaia di euro. Ora poteva restituirmene almeno una parte».
E cosa è accaduto?
«È accaduto che la risposta è stata negativa. Anzi, non è stato solo un no. È stata un'offesa dettata dalla cattiveria e dalla bramosia di denaro. Il caporale mi ha detto che avrei dovuto pagare per essere regolarizzato. Ma come, non è un mio diritto? E poi dovevo tornare urgentemente in India dalla mia famiglia. Invece mi stavano chiedendo quasi 10 mila euro. Questo è stato possibile perché il Governo italiano con quella regolarizzazione ha dato troppa centralità ai padroni. Li ha infatti inseriti al centro sostanzialmente del processo di regolarizzazione e dunque ha riconosciuto loro un potere discrezionale e di ricatto che si è riverberato ancora una volta su noi braccianti stranieri. Sarebbe stato meglio se ci fosse stata data la possibilità di rivolgerci direttamente allo Stato o ai sindacati. Invece, ancora una volta, il padrone è stato messo al centro. E molti di loro, come il mio, ne hanno approfittato. Pensa che lui ha fatturati di milioni di euro. I miei soldi non gli avrebbero cambiato la vita ma me li ha chiesti ugualmente. In quel momento tutto mi è crollato addosso. Mio padre morto, la mia famiglia sola in India, io incastrato in quel mondo, il padrone che voleva diventare col caporale indiano più ricco. Dentro me qualcosa si è spezzato. Tornando a casa presi la mia decisione. Mi mancava mio padre e in quel mondo di violenza e sfruttamento non volevo più vivere. Sono tornato a casa. Ho aperto la porta. Mi ricordo di essere in una sorta di trance. Sentivo solo dolore. Un dolore profondissimo e fortissimo. Presi una lunga sciarpa arancione. Io sono minuto, piccolino. Legai un lato della sciarpa in cima ad un mobile e l'altro intorno al mio collo. E dissi addio a tutto. Non ce l'ho fatta. Mi tolsi la vita per disperazione e nel contempo per denunciare al mondo dei ricchi che alcuni di loro sono tali solo perché ci derubano, ci sfruttano e ci emarginano. Ho sentito una stretta fortissima al collo. È durato qualche secondo. Poi ho visto tutto nero e tutto subito dopo è finito. Ora sono qui e da qui non parlo direttamente con voi ma cerco di smuovere le vostre coscienze, o almeno di coloro che una coscienza ancora ce l'hanno. So che tu hai le foto e i video di quando mi hanno trovato».
Il mondo dei ricchi dovrebbe vergognarsi e quello degli ignavi, pavidi e timidi invece chiederti scusa per non avere fatto abbastanza o per non averlo fatto in tempo. Io per primo. Sai che nel Pontino c'è un progetto che porta il tuo nome? Si chiama Dignità Joban-Singh ed è portato avanti da Tempi Moderni
«L'ho saputo e ne sono felice. Si sono già rivolti al progetto diverse donne indiane sfruttate. Alcune hanno lavorato anche 6 mesi come braccianti senza prendere un euro. Ora hanno denunciato a dimostrazione che noi lavoratori e lavoratrici sappiamo assumerci le nostre responsabilità. Poi sono venuti giovani indiani, ragazzi senza permesso di soggiorno, braccianti indiani adulti sfruttati, degli italiani sfruttati in edilizia e nel commercio al minuto. Anche tre assistenti domiciliari italiane, che voi chiamare badanti con un pessimo termine, hanno chiesto informazioni e aiuto. Io sono accanto a loro e a tutti coloro che non smettono di lottare per vincere padroni e padrini, trafficanti e sfruttatori, avvocati, commercialisti, mediatori e capi corrotti. Da qui è facile vedere un'umanità composta tutta da persone libere e uguale».
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