Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Così, fra infamità e depistaggi, ci si avvicina all’Addaura, una borgata di Palermo. Ci si avvicina alla dinamite del 21 giugno del 1989. Il Corvo e l’attentato all’Addaura sembrano due vicende lontane. Ma chi ha pilotato la prima operazione è anche quello che organizza la seconda. È una vera e propria congiura. L’attentato fallisce. A Palermo mettono in giro una voce per insudiciare Falcone, una volta ancora: «La bomba se l’è messa lui». Morto o vivo, Giovanni Falcone deve essere annientato.

I candelotti di dinamite e di gelatina esplosiva sono cinquantotto. Li trovano sugli scogli dell’Addaura, davanti alla villa che il giudice prende in affitto d’estate. Quel giorno, il 21 giugno, Falcone ha invitato a pranzo due colleghi svizzeri, Carla Del Ponte e Claudio Lehman. Un poliziotto della scorta avvista il borsone dove è nascosto l’ordigno, un artificiere dei carabinieri precipitosamente distrugge l’innesco, Giovanni Falcone capisce subito che quello non è un «avvertimento». Sa che vogliono farlo fuori. E sa anche che, ad organizzare l’attentato, non sono stati solo i boss di Cosa Nostra. Dice, il giorno dopo il ritrovamento dei candelotti: «Sono state menti raffinatissime». E spiega: «Ci troviamo di fronte a gente che tende a orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento fra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono davvero capire le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi». Giovanni Falcone, in quell’inizio d’estate, intuisce quello che vent’anni dopo scopriranno i magistrati che indagano sulla sua morte. Mafia ma non solo mafia. Apparati dello Stato, servizi segreti. Il giudice convince la moglie a lasciare la villa dell’Addaura. Resta solo.

E comincia a dormire per terra, su un telo. Sotto il cuscino nasconde una pistola a tamburo, calibro 38. «Voglio dormire a terra per stare scomodo, non posso più avere un sonno pesante e d’ora in poi devo essere pronto a tutto. Ormai non mi posso fidare più di nessuno», racconta al suo amico Paolo Borsellino. Il 21 giugno del 1989 è il giorno in cui Giovanni Falcone comincia a morire.

Sprofondare ad ogni passo

È agosto, un caldo appiccicoso, Palermo si sta svuotando. Finisco il mio «giro» al Palazzo di Giustizia e ho il taccuino vuoto. Sono circa le due del pomeriggio del 4 agosto 1989. Sto pensando di tornare a casa per fare qualche telefonata dopo pranzo. Sento qualcuno che mi chiama, mi volto, è un poliziotto. «Che fai?», mi chiede. Gli dico che sono stanco, che sto per andare via. Lui mi prende per un braccio: «Aspetta, ti stanno cercando». Siamo al bar «Sanremo» davanti al Tribunale. Poco dopo, arriva un alto funzionario del ministero degli Interni che conosco bene. Ci salutiamo. Mi invita a salire sulla sua auto, non mette in moto, tira fuori da una borsa un pacco di carte e comincia a raccontare: «Questo è un rapporto che ho appena consegnato al procuratore capo della repubblica. C’è tutto». Tutto su cosa?, domando. «Sul giudice Falcone spiato».

Sfoglia il dossier, mi fa leggere di «derivazioni» di linee, di doppi fili, di microspie, di strumenti che hanno registrato «tracce di tensione provenienti da un apparecchio elettroalimentato» sui telefoni nel bunker del giudice Falcone. Mi fa vedere anche alcune fotografie di quei fili incrociati l’uno con l’altro, centraline scoperchiate, apparecchi telefonici smontati. Falcone non è a Palermo. Torno a casa, leggo e rileggo quel rapporto che ho infilato nel mio zainetto. Un centinaio di pagine. È una bomba. Chiamo il caporedattore del giornale. Scrivo il mio articolo. L’indomani, un grosso titolo in prima pagina informa gli italiani che il giudice simbolo della lotta alla mafia è spiato nel suo Tribunale. Alle 10 del mattino arrivano le prime smentite ufficiali. Nel pomeriggio non c’è magistrato o poliziotto di Palermo che confermi una sola parola di quanto ho scritto. Non mi preoccupo. Ho il rapporto che è stato inviato al procuratore capo, sono sicuro che ce l’ha anche lui. Ho le carte. La mia notizia è «blindata». Continuano a smentire tutti. Passa un altro giorno e il mio amico Peppe D’Avanzo, che lavora alla redazione di Roma, raccoglie al Viminale conferme autorevoli sulle informazioni che ho pubblicato.

Il capo della polizia Vincenzo Parisi non parla in via ufficiale ma i suoi fanno sapere: «Le manomissioni scoperte sulle linee di servizio e un reperto sequestrato all’ufficio istruzione ci preoccupano molto: sono la conferma di interessi eterodossi nelle indagini in corso. Abbiamo riscontrato più di una preoccupante anomalia sull’utenza del giudice Falcone». Il coro delle smentite finalmente si placa. Mettono sotto sequestro l’ufficio del giudice. Aprono un’inchiesta ufficiale. Non ho scritto minchiate.

Dopo qualche anno, Peppe ed io abbiamo scoperto che quel rapporto era vero, sì, ma costruito «a tavolino». Nessuno spiava il giudice all’interno del Tribunale. Qualcuno però gli stava addosso. Gli voleva far sapere che era lì, alle sue spalle, pronto a colpirlo. O per proteggerlo. E chissà, salvargli la vita. Un gioco di specchi. Con il falso che diventa vero. E viceversa. Nella giungla di Palermo si può sprofondare a ogni passo.

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