Quel furto, a mio padre fu subito chiaro, era molto di più di un «attacco» economico, era la sfida lanciata da qualcuno che non aveva timore e aveva osato, appunto, sfidare Luigi Ilardo e tutta la sua potente famiglia in un duello di sangue e morte, perché altra fine non poteva esistere per un affronto del genere compiuto ai danni di un «uomo d’onore» del suo calibro
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Eravamo nella primavera del 1996. Una sera di fine marzo che invitava a uscire, Francesca e io ci preparammo con tanta voglia di divertirci. Raggiungemmo la nostra comitiva e, in stile carovana, ci recammo tutti al Taitù, nota discoteca di Taormina, tanto in voga in quel periodo, dove si ballava musica house e ogni fine settimana si alternavano dj famosi. La serata trascorse come quelle di sempre tra divertimenti, alcol e risate.
L’ultima tappa fissa prima del rientro verso Catania era il piccolo bar vicino al locale per mangiare i cornetti appena sfornati. Intorno alle sei e trenta del mattino, con un’altra macchina e alcuni amici, mia sorella era rincasata, prima di me; una mezz’ora dopo, anche io ero riuscita a eludere la sorveglianza di mio nonno rientrando in casa senza far rumore né svegliarlo. La prima tappa fu la camera di mia sorella, che trovai stranamente chiusa a chiave; bussai e le chiesi il motivo, la sua risposta fu: «Ho trovato la porta della stanza di papà aperta, c’è un impermeabile beige e la macchinetta della pressione sul letto, manca una federa del cuscino e sono terrorizzata che qualcuno sia in casa... aspettavo te...».
Accendemmo tutte le luci della casa, tornammo insieme nella stanza da letto di papà, tutto era come Francesca mi aveva descritto. In preda al panico ma senza altra scelta, Francesca e io iniziammo un giro di perlustrazione, controllammo la porta di ferro del garage – che era stata sempre negli anni oggetto di preoccupazione – correttamente chiusa con i suoi chiavistelli, le altre sei camere anch’esse regolarmente con le porte chiuse e senza nulla fuori posto.
Nella stanza di papà la chiave della cassaforte era nella sua solita piccola ciotola di argento; per maggiore sicurezza e con il cuore in gola, guardammo anche sotto ogni singolo letto, senza trovare nulla oltre alla nostra paura. Dentro di noi sapevamo che qualcosa non andava, che nonno mai si sarebbe alzato dal letto entrando nella stanza di papà, toccando o prendendo la federa del cuscino (papà, Cettina e i bambini erano a dormire in campagna).
Dopo qualche minuto di confronto, arrivammo alla decisione di non allertare o chiamare nessuno, sarebbe stato controproducente per noi: avremmo rischiato di far scoprire l’assurdo orario in cui eravamo rincasate e le nostre facce, stanche e un po’ brille dopo lunghe ore di discoteca, sarebbero state le prove della notte brava appena trascorsa. Magari avremmo creato ansia e agitazione a Lentini, facendo rientrare papà senza una reale e giusta causa. Decidemmo di comune accordo di non dare troppo peso all’accaduto e andare a letto come se nulla fosse.
Quella domenica riuscimmo a sottrarci al pranzo lentinese, accampando la scusa dei compiti da svolgere, ma in realtà passammo parte della giornata a dormire per recuperare le ore di sonno perse. Nel pomeriggio ci preparammo e uscimmo per riunirci con la solita comitiva. Intorno alle diciotto e trenta, suonò il cellulare di mia sorella: era Cetty che con un tono insolitamente duro, appena rientrata a casa con papà e i bambini, le chiedeva se fosse scappata da casa con il fidanzato e le intimava di fare immediatamente rientro, perché papà era fuori di sé.
Lo scontro con il padre
Sapevamo bene che quella telefonata e quel tono presagivano seri guai. Arrivai a casa dopo Francesca e fui accolta da papà in corridoio con uno schiaffone che mi girò letteralmente la testa (mio padre solo due volte ci mise le mani addosso); non realizzavo cosa stesse accadendo, corsi verso il salotto da dove giungevano dei singhiozzi: era mia sorella che piangeva, rossa in volto e tumefatta, Cettina era in uno stato di agitazione irrefrenabile.
Mio padre ci raggiunse alterato, lo sguardo violento come mai lo avevo visto prima di quel giorno. Si stava per gettare ancora su di noi. Due dei suoi uomini a fatica tentavano di tenerlo fermo mettendosi davanti a lui e impedendogli di scagliarsi di nuovo contro me e Francesca. Dalla sua bocca uscivano parole impronunciabili, rivolte a noi, mai sentite prima [...]. Il silenzio e lo sgomento si impadronirono di me. Non potevo credere a ciò che avevo sentito, caddi in uno stato confusionale che mi fermò il respiro, i pensieri e il cuore.
I minuti successivi furono i più lunghi della mia vita, mai e poi mai vidi mio padre in quello stato quasi demoniaco, agitato, pieno di rabbia. Fu chiaro a tutti che quell’evento avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. Non sapeva più cosa fare, chi chiamare, girava freneticamente per tutta la casa. Nell’ora successiva giunsero altre persone, i suoi uomini, che insieme a lui continuavano a fare sali e scendi da casa, entra ed esci dalla stanza da letto fino a quando non si sentì l’ultima chiusura definitiva della porta di ingresso. Ci raccogliemmo, Cettina, io e mia sorella, nella nostra stanza.
Cetty era sconvolta ed evidentemente sotto choc per la ferocia che per la prima volta vide in mio padre, per giunta una ferocia rivolta verso noi figlie. Infine, mentre cercava di calmarsi, ci spiegò che vedendo la stanza da letto come noi l’avevamo vista (lei non lo sapeva), papà, sospettoso, aveva aperto la cassaforte regolarmente chiusa, trovandola però del tutto vuota.
[…] Quel furto, a mio padre fu subito chiaro, era molto di più di un «attacco» economico, era la sfida lanciata da qualcuno che non aveva timore e aveva osato, appunto, sfidare Luigi Ilardo e tutta la sua potente famiglia in un duello di sangue e morte, perché altra fine non poteva esistere per un affronto del genere compiuto ai danni di un «uomo d’onore» del suo calibro. Quel giorno cambiò le nostre vite e noi ragazze non sapevamo che il peggio doveva ancora arrivare. Si fece sera tardi, a stento riuscivamo a proferire parola l’uno con l’altro, solo un po’ di fiato per farci delle domande ed esporre le riflessioni sull’accaduto
Papà, sempre stravolto ed estenuato, rientrò a casa. Chiuse me e mia sorella in camera e cominciò un interrogatorio severo su luoghi di frequentazione, amicizie, orari di quella sera. Domande e ancora domande... scandagliando con scrupolo per ore la nostra vita e ogni dettaglio che potesse tornare utile. Non ebbe il coraggio di scusarsi per la violenza con cui colpì me e, soprattutto, mia sorella; erano come sempre i suoi occhi a parlare.
Sguardi di rabbia, altri di pentimento e commiserazione... penso verso sé stesso. Chiese a mia sorella di fargli vedere dove l’avesse colpita e, simili a rocce sgretolate, qualche lacrima rigò il suo viso e il nostro. Le ultime parole indelebili, le cito testualmente, furono: «Qualcuno si è permesso di entrare nella mia chiesa e rubare il mio oro...».
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