«Falcone è finito», dicono a Palermo. Ci sono amici che gli consigliano di candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. Lui è contrario. Poi si convince che quella è l’unica soluzione per poter influenzare la politica giudiziaria e continuare la sua battaglia antimafia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
La Sicilia è sottosopra. E anche il resto del mondo.
L’89 è l’anno del crollo del Muro di Berlino, anche a Palermo si rimescola tutto un’altra volta. La mafia aspetta fiduciosa il secondo grado del maxi processo, il Tribunale è dilaniato da faide, magistrati contro magistrati, trasferimenti d’ufficio per gli amici di Falcone come il sostituto procuratore Giuseppe Ayala, miasmi, altre lettere anonime che circolano, la squadra mobile azzerata e affidata a un poliziotto – Arnaldo La Barbera – che risponde direttamente al capo della polizia Vincenzo Parisi.
È come se fosse trascorso un secolo dalla sentenza del maxi processo nell’aula bunker.
Se Palermo è in bilico, Giovanni Falcone è sull’orlo di un precipizio. All’ufficio istruzione è rimasto prigioniero di Meli, è in feroce polemica con l’Alto Commissario Domenico Sica, alcuni giudici del pool – Giuseppe Di Lello per primo – se ne vanno sbattendo la porta, Paolo Borsellino è diventato procuratore della repubblica di Marsala. L’entusiasmo della città per gli «eroi» dell’Antimafia è passato di moda.
Totò Riina è sempre libero, Palermo è sempre nelle mani dei suoi macellai. I Madonia di Resuttana, i Ganci della Noce, i Graviano di Brancaccio, i Galatolo dell’Acquasanta, i Buscemi di Passo di Rigano. Il giudice Falcone è disperato. E va incontro ad altre delusioni. Il giorno dopo il fallito attentato all’Addaura, il Consiglio superiore della Magistratura lo nomina procuratore aggiunto.
Il capo dell’ufficio è Piero Giammanco, un frequentatore di salotti, buon amico di Mario D’Acquisto, il presidente della Regione ai tempi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Giovanni Falcone rimane incastrato anche in procura. Non può fare un passo. È controllato a vista. La porta di Giammanco è sempre chiusa per lui. Un giorno ha bisogno di parlare con il capo, aspetta su un divano, fa anticamera per trentacinque minuti come l’ultimo degli uditori. Mortificazioni, indagini ferme, altri sospetti. Il giudice si tormenta, non sa più cosa fare.
«Falcone è finito», dicono a Palermo. Ci sono amici che gli consigliano di candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. Lui è contrario. Poi si convince che quella è l’unica soluzione per poter influenzare la politica giudiziaria e continuare la sua battaglia antimafia. Comincia a ipotizzare l’istituzione di una Superprocura per coordinare le indagini delle procure sul territorio, dice che ci vuole anche una polizia specializzata, come l’Fbi.
È questa la sua «campagna elettorale». Non partecipa agli incontri con i colleghi della sua corrente, non cerca voti per farsi eleggere. «Lo sanno chi sono», risponde a tutti. Viene bocciato. I magistrati italiani non lo votano per il Csm. Non lo vogliono fra i piedi nemmeno lì. Sono pochi i giudici che gli vogliono bene. Una è Ilda Boccassini, il pubblico ministero di Milano che in quei mesi – è la metà del 1989 – inizia a indagare sulla mafia al Nord. È la Duomo Connection, trafficanti siciliani in combutta con amministratori pubblici milanesi.
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