Un poliziotto munito di cuffie è pronto a bordo di una moto smarmittata. Aspetta solo il via dalla centrale, che arriverà non appena il telefono di Brusca entrerà in funzione. Alle venti e quaranta Sottile chiama Brusca. Pochi istanti di conversazione e il poliziotto-motociclista riceve l'ordine di muoversi. Le decine di agenti sul posto, appena sentono nelle cuffie il ritorno del rumore della moto smarmittata, localizzano subito la villetta giusta. Scatta l'irruzione. Giovanni Brusca non ha nemmeno il tempo di reagire
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
Il 16 maggio c'è una novità interessante. Uno degli agenti ci comunica di aver visto una signora con un bambino, e di aver riconosciuto nel bimbo il piccolo Davide, il figlio di Brusca. «La fimmina non l'ho vista bene bene, ma 'u picciriddu» dice il poliziotto «mi è sembrato proprio quello delle foto di Borgo Molara.»
È una conferma. Ma non è ancora sufficiente a fugare gli ultimi dubbi e a farci intervenire. Non abbiamo infatti ancora la certezza che anche Brusca si nasconda nella stessa casa e, soprattutto, non abbiamo individuato il posto esatto dove poter fare l'irruzione: il poliziotto ha visto correre quel bambino verso un gruppo di villette, ma non sa dire esattamente in quale sia entrato.
E così arriviamo a quella maledetta domenica passata a fumare nella sala ascolto della questura. Il giorno del fallito pedinamento del macellaio Santo Sottile. La domenica delle campane suonate a festa, da cui ci viene l'idea di provocare un rumore nella zona sospetta.
L'indomani, lunedì 20 maggio, decidiamo di rompere gli indugi e di fare il blitz. L'operazione viene preparata con estrema cura. In fondo al viale che porta alle villette, un poliziotto con casco integrale munito di cuffie è pronto a bordo di una moto, smarmittata per l'occasione. Aspetta solo il via dalla centrale, che arriverà non appena il telefono di Brusca entrerà in funzione.
Alle venti e quaranta, un po' più tardi del solito, Sottile chiama Brusca. Pochi istanti di conversazione e il poliziotto-motociclista riceve l'ordine di muoversi. Decine di agenti sul posto sono collegati con la centrale della squadra mobile.
Appena sentono, nelle cuffie, il ritorno del rumore della moto smarmittata, localizzano subito la villetta giusta. Scatta l'irruzione. La casa viene immediatamente circondata. Entrano i poliziotti. Vengono esplosi i flash bang che seminano il panico.
Giovanni Brusca non ha nemmeno il tempo di reagire. Viene steso pancia in giù e ammanettato. Stessa sorte tocca al fratello Enzo che si trova nella villetta. Anche lui latitante. Nella confusione il piccolo Davide, stordito e spaventato, cerca riparo in giardino. I poliziotti lo prendono e lo consegnano alla madre che lo calma.
Dai Brusca la tv è accesa. Anche lì, come a casa mia, scorrono le immagini dello sceneggiato su Falcone. Mentre è in corso la perquisizione, sul video compare una scritta: «Arrestato ad Agrigento Giovanni Brusca...». Notizia in tempo reale.
È notte. I fratelli terribili di San Giuseppe Jato vengono portati in manette in questura a Palermo, accolti da un tripudio di clacson e sirene. Cittadini che applaudono. Poliziotti con il volto coperto che agitano i mitra in aria, in segno di vittoria. Lo sfogo, legittimo e umanamente comprensibile, di chi ha lavorato mesi e mesi, giorno e notte, nella sterpaglia e nel fango, sotto le intemperie, aspettando questo momento, questo risultato.
Il giorno dopo i fratelli Brusca vengono fatti uscire da una porticina laterale della sede della squadra mobile. Sono emaciati, hanno lividi e graffi sul viso, barbe lunghe. Sembrano due naufraghi. Vengono portati via in manette, costretti a passare per il cortile, attraverso una sorta di gogna mediatica: una folla di giornalisti, microfoni e teleobiettivi. Enzo ha un sussulto, un estremo atto di arroganza. Fissa le telecamere con gli occhi spiritati e tira fuori la lingua: un ultimo sberleffo. Quando li portano fuori in manette scattano centinaia di flash e l'urlo «assassino, assassino».
L'assassino di Capaci, il killer che gli stessi compagni chiamano 'U verru, il maiale, adesso non fa più paura. È finita. L'uomo che ha ucciso Falcone, il boss che poteva eseguire altre stragi usando missili e bazooka, adesso è in una camera di sicurezza. Ha ancora le mani legate, perché qualcuno, nella confusione, ha perso le chiavi delle manette. Non si trovano. O forse nessuno ha voglia di trovarle. Gli agenti che lo hanno appena arrestato sono quasi tutti amici dei poliziotti saltati in aria a Capaci. Fosse per loro quelle manette non gliele toglierebbero più.
A Cannatello, intanto, inizia la perquisizione del covo. In questa villetta a due piani, molto meno lussuosa di quella di Borgo Molara, non troviamo nessun arsenale, nemmeno un'arma. A parte una pistola giocattolo del piccolo Davide, appoggiata su una seggiola. C'è invece qualche «pizzino»: una ventina di bigliettini. Due inequivocabili, scritti a macchina da Binu Provenzano, che si concludono con il classico auspicio «Dio ti aiuti e ti protegga». E poi un altro, firmato Gianni, diminutivo di Giovanni Riina, figlio maggiore di Totò, che chiede un incontro con Matteo Messina Denaro per sistemare affari e appalti.
Al primo piano scopriamo una specie di stanza del tesoro: in una delle borse da viaggio già pronte, forse per una fuga, c'è lo scrigno dei gioielli della signora Cristiano: orecchini, collane di perle, coralli e soprattutto brillanti. Tanti brillanti.
E poi, in una scatola, l'intera collezione di orologi di Giovanni Brusca. Una raccolta da vero estimatore. Orologi da polso e da taschino. Rolex, Cartier, Girard-Perregaux, Vacheron Constantin, Ebel. Orologi con diamanti incastonati. D'oro e di platino. Pezzi rari. Una vera passione, quasi una malattia. Una smania, per il giovane Brusca. Forse un bisogno maniacale di misurare il tempo, tra un delitto e l'altro. Ma solo con orologi di grande marca.
Una cinquantina, ne troviamo, tutti stupendi, tutti di grande valore. C'è un Corum in oro giallo, il famoso modello con le bandierine marinare; e, ancora, un rarissimo cronografo Ulysse Nardin. I gioielli, in parte, li abbiamo riconsegnati alla signora.
Gli orologi invece li abbiamo confiscati perché siamo riusciti a provarne la provenienza illecita. Per lo più, regali di imprenditori vittime di estorsioni e, però, «grati» al boss per aver ricevuto uno sconto sul pagamento del pizzo. Come un cronografo d'oro rosa, realizzato dalla Baume & Mercier in edizione limitata in occasione del proprio centenario e donato al boss per un subappalto nella realizzazione della strada a scorrimento veloce Palermo-Sciacca.
A Brusca, tempo dopo, restituiamo solo un Rolex, e soltanto perché riesce a dimostrare che si tratta di un regalo di compleanno dei nonni materni per il figlio Davide.
Proposta di collaborazione
La sera stessa dell'arresto, Savina e Sanfilippo, d'intesa con noi della procura, cominciano a insinuare alcuni dubbi nel giovane «padrino». In un colloquio in questura, prima di trasferirlo all'Ucciardone, sostanzialmente gli dicono: «Senti, Brusca, parliamoci chiaro: non hai più speranze. Ti aspetta una valanga di ergastoli. Hai quarantanni e una prospettiva di "fine pena mai". Decidi quello che vuoi fare. La porta dello Stato è aperta».
E con grande sorpresa dei due bravissimi funzionari di polizia, Brusca non sbatte loro la porta in faccia: «Ci penserò e vi farò sapere».
Lo mandiamo all'Ucciardone, in un'area riservata e sotto la tutela del Gom, Gruppo operativo mobile, il nucleo speciale della polizia penitenziaria. Proprio per quel segnale di «apertura», scegliamo di non interrogarlo subito. Di lasciarlo un po' a riflettere.
Il 23 maggio 1996 a Palermo si ricorda la strage di Capaci. Sono passati tre giorni dall'arresto. Una moltitudine di cortei antimafia attraversa la città. Ci sono i ragazzi del Borgo Vecchio e dello Zen, i bambini di Brancaccio e le donne con «i lenzuoli». Ci sono politici e magistrati. C'è, soprattutto, tanta gente comune che si dirige verso l'albero Falcone, la pianta che cresce sotto l'abitazione del magistrato assassinato e che è diventato un totem della legalità. La folla si ferma davanti al palazzo di Giustizia. Applaude il procuratore Gian Carlo Caselli. Una vera ovazione. Dopo anni di lutti e di paura si respira una nuova aria.
Guardo la scena da una finestra della procura. In genere evito di andare alle commemorazioni. Mi infondono tristezza. Preferisco ricordare dentro di me e lavorare: ammuttare carte, spingere le carte, come diciamo dalle nostre parti. E di lavoro, dopo l'arresto di Brusca, ce n'è tantissimo. Sono le cinque del pomeriggio quando, nel mio ufficio, squilla il telefono. È una comunicazione urgente dall'Ucciardone.
È il colonnello Enrico Ragosa, comandante del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Con il suo accento genovese e la sua inconfondibile voce roca, baritonale, mi dice: «Comandi, dottore. Il bambino ha bisogno d'affetto!» e riattacca. Capisco al volo: è la svolta! Un messaggio cifrato, stile Radio Londra: Giovanni Brusca decide di arrendersi e di collaborare con la giustizia.
Bandiera bianca. Settantadue ore dopo quella timida apertura con gli uomini della squadra mobile, il boss dai mille nascondigli e dalle camicie di seta, l'uomo dei telecomandi e degli orologi, l'ultimo deim mohicani dello stragismo corleonese, ha deciso di passare al «nemico».
Come un bambino, adesso, chiede l'affetto dello Stato.
© Riproduzione riservata