Giuseppe Monticciolo costruisce un bunker a San Giuseppe Jato, in località Giambascio. Un casolare all’apparenza dismesso. Al suo interno, sottoterra gli investigatori trovano un arsenale militare contenente armi di tutti i tipi, dai mitra ai lanciamissili. E poi ancora esplosivo, pistole e lupare. Infine, due camere della morte: quella dove è stato tenuto prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo e una piccola cella in cui è stato ucciso
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
Un secondo incontro si verifica poco tempo dopo, quando decide di collaborare Giuseppe Monticciolo, personaggio chiave della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato.
Monticciolo è un imprenditore edile di paese: camicia di seta e scarpe sporche di calce. Gira in Mercedes e maneggia soldi sporchi. È il genero di uno dei killer di Capaci, Giuseppe Agrigento, capofamiglia di San Cipirello, di cui ha sposato la figlia Laura. Traffica con calcestruzzo e mattoni e nel tempo libero fa il sicario per conto di Giovanni Brusca. Tony Calvaruso ce lo indica come l'alter ego del «padrino». Lo arrestiamo il 20 febbraio del 1996.
Prima ancora di arrivare in carcere Monticciolo decide di collaborare: non ci pensa due volte a tradire il suo capo. E ci dà subito la dritta giusta. «I fratelli Brusca» ci dice «si appoggiano a casa di un certo Baldinucci, a Borgetto.»
La caccia continua. La Dia si precipita. Nella casa di Borgetto, a pochi chilometri da Palermo, manchiamo i due fratelli per un soffio. Trenta minuti prima, li avremmo trovati lì, tutti e due insieme, Giovanni ed Enzo, il fratello minore. Ma, ancora una volta, ci beffano. Quando entriamo nella casa se ne sono appena andati, senza lasciare traccia. Sono fatti così, gli uomini d'onore: quando si tratta di sbirri e magistrati, è come se ne sentissero l'odore a distanza; una sorta di sesto senso, il fiuto animale di chi è abituato a stare perennemente sul chi va là, sempre pronto a tagliare la corda.
È questo il mio secondo incontro ravvicinato con il boia di Capaci, il mio secondo buco nell'acqua. Ma intanto intorno al boss è sempre più terra bruciata. Appoggi e protezioni, via via, vengono meno. Ormai si sente braccato, accerchiato, assediato. Con il fiato sul collo.
Una mano a catturarlo ce la può dare proprio questo Monticciolo. La sua dritta si è dimostrata fondata. Potrei dire di lui tutto il male possibile. Giuseppe Monticciolo è colui che ha svolto i lavori più sporchi per conto di Giovanni Brusca, compresa la gestione dell'ultimo anno di prigionia di Giuseppe Di Matteo. Se ne è occupato lui, in modo quasi esclusivo. Procurare i vivandieri, spostare il ragazzino da un covo all'altro, organizzare i turni di guardia. È Monticciolo che costruisce un sofisticatissimo bunker a San Giuseppe Jato, in località Giambascio, che sarà l'ultima prigione del piccolo ostaggio.
È lui che rimedia gli escavatori, le ruspe, i mattoni, il cemento. È lui che dirige i lavori. Come imprenditore edile, infatti, non ha difficoltà a procurarsi uomini e mezzi. È l'unico del gruppo che può muoversi liberamente: non ha precedenti penali, mentre i fratelli Brusca sono latitanti.
Personaggio di grande spessore criminale e di animo particolarmente feroce. Ambiziosissimo e dotato di ottime protezioni grazie alla parentela con gli Agrigento. Nella graduatoria del potere a San Giuseppe Jato è il numero due, viene addirittura prima di Enzo Brusca. Ma per noi è un soggetto praticamente sconosciuto, almeno prima delle rivelazioni di Tony Calvaruso.
È basso, scurissimo in viso, occhi neri, vivaci e penetranti. Occhi che ti mettono in difficoltà. Una volta arrestato sceglie la collaborazione e manifesta un odio esagerato nei confronti di Giovanni Brusca. Una rivalità covata a lungo. Giuseppe Monticciolo si ritiene superiore dal punto di vista criminale e non sopporta di essere l'eterno secondo.
Alcuni giorni dopo la sua collaborazione si «pente» anche Vincenzo Chiodo, il custode di Giambascio. Entrambi ci parlano dei terribili segreti che si nascondono in quel posto. E in una nebbiosa mattina di fine febbraio facciamo l'incursione e ci troviamo di colpo dentro un'agghiacciante casa degli orrori.
Un anonimo casolare di campagna che nasconde un rifugio sotterraneo degno di James Bond. Basta azionare un telecomando e ti ritrovi dritto dritto nelle stanze della morte. Ma stavolta non è un film. È il bunker di Giambascio, contrada di campagna vicina a San Giuseppe Jato. Colossale armeria e «macelleria» personale di Giovanni Brusca. Qui troviamo il più grosso quantitativo di armi mai scoperto e sequestrato in Italia. Le riprese video, effettuate dalla Dia, finiscono su tutti i telegiornali.
Un arsenale per fare la guerra allo Stato
Quando, oggi, sento parlare di arsenali sequestrati qua e là a qualche clan criminale, e sento che si tratta magari di una decina di pistole e di un paio di fucili, penso a Giambascio e mi viene da sorridere!
C'è un terreno incolto, con una casa di campagna uguale a mille altre, per metà abusiva, quasi in stato di abbandono. Ma dentro, la scena cambia: grazie a un telecomando, una parte del pavimento della lurida cucina si abbassa. E tramite un pistone idraulico azionato da una centralina elettrica, si accede a un piano sotterraneo segreto. Una tecnologia straordinaria. La piattaforma mobile è costituita da quattro mattonelle, un quadrato perfettamente mimetizzato dalle fughe del pavimento. Insospettabile. Sembra la casa di Diabolik. Ci si mette sopra, si preme il tasto di un radiocomando e la piattaforma si abbassa.
Scende giù, come un ascensore. Sotto ci sono due stanzette e un disimpegno. Scavando da lì si accede a un grosso tubo d'acciaio interrato, e dal tubo, procedendo carponi, si arriva a una cisterna sotterranea dove è nascosto l'arsenale.
Gli agenti che si calano non credono ai loro occhi. Continuano a estrarre dalle viscere della terra fucili e pistole, bazooka e munizioni. Una serie di strumenti di morte che non finisce mai. Se li passano di mano in mano. Sembra il magazzino di una fabbrica bellica.
Nel tubo può entrare una persona per volta. Il dirigente della Dia Nino Cufalo e il capitano dei carabinieri Gigi Bruno, tutti sporchi di fango, entrano ed escono a turno da quel buco. Increduli, esterrefatti.
La flebile luce delle torce elettriche illumina una sfilza di armi lunghe e corte: più di quattrocento pistole di ogni tipo e calibro, svariate decine di fucili a pompa e semiautomatici, baionette e mitra. Ci sono alcuni pezzi rari, da collezione: come una Desert eagle, una costosissima pistola americana. C'è un fucile Thompson con il caricatore circolare, come quello dei film sui ruggenti anni Venti di Chicago. A parte qualche vecchia lupara arrugginita, sono quasi tutte armi in ottimo stato.
Verso sera, dal fondo della cisterna, spuntano anche gli Ak 47, i micidiali kalashnikov. Centinaia. Uno dopo l'altro. Vengono messi tutti in fila, ma, per quanti sono, facciamo fatica a contarli.
E alla fine si tira fuori qualcosa di più ingombrante: alcuni lanciamissili simili a siluri. Dieci Rpg 18 di produzione sovietica: schierati lì, allineati sul terreno, sono mostruosi. Nessuno di noi ne ha mai visti prima. Fanno veramente paura. Sono i terribili «martelli di Allah», i bazooka terra-aria usati dai mujaheddin afghani per abbattere proprio gli elicotteri di Mosca, nella guerra contro l'Unione Sovietica.
Ci sono anche due Rpg 7. A differenza dell'Rpg 18, che è un lanciamissili monouso, l'Rpg 7 è un lanciagranate riutilizzabile. Può impiegare diversi tipi di munizioni, diverse cariche. Missili nelle mani di Cosa nostra. Un acquisto di Giovanni Brusca nel 1992: una partita di armi comprata da un commerciante italo-svizzero che poi abbiamo arrestato. Sono gli stessi bazooka con cui sono state distrutte le famose statue dei Buddha, nella Valle del Bamiyan, in Afghanistan. Con queste armi, insomma, si può fare la guerra.
Troviamo anche le relative munizioni: decine e decine di granate con cariche supplementari di lancio per incrementarne la potenzialità offensiva. E non poteva mancare l'esplosivo. Fusti di vario tipo: semtex, plastico, tritolo. Esplosivo in panetti o in polvere come il detersivo per lavatrice.
Ci vogliono molte ore prima di svuotare completamente quella cisterna. Cala la notte, si monta il gruppo elettrogeno e si accendono fari e riflettori. Sembra il set d'un film. Un film di guerra. E di guerra si tratta, la guerra di Cosa nostra contro lo Stato.
Come si giustifica infatti questo arsenale, se non in una logica di scontro militare? Un missile di questi può sventrare un'auto blindata, può colpire un aereo in fase di decollo o atterraggio; può fare decine, centinaia di vittime. Di fronte ai loro razzi, noi abbiamo solo le armi della democrazia: legalità e rispetto delle regole. Vicino a questa santabarbara, nel piano segreto della casa, ci sono due stanzette, ovviamente senza finestre ma in perfetto stato, con la luce elettrica, arredate del necessario. Quella con la porta di ferro è la prigione del piccolo Di Matteo. Il posto dove il ragazzino ha vissuto e dormito per diversi mesi, la cella dove è stato strangolato.
È stata perfettamente ripulita. Ma ancora oggi a pensare a quella camera sottoterra mi vengono i brividi. Torniamo a casa con addosso un profondo senso di inquietudine.
È il 25 febbraio del '96. La caccia a Giovanni Brusca continua. Con una maggiore consapevolezza della sua pericolosità: è sempre più urgente catturare l'uomo di quell'arsenale. La sua libertà è una gravissima minaccia per lo Stato democratico.
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