Il 12 gennaio gli inquirenti fanno irruzione in una villa di lusso a Borgo Molara. La casa è vuota. Dentro è deserto. Non c'è anima viva. Ma ci sono tracce, segni evidenti di una presenza recente, recentissima. C’è un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. In un cassetto il passaporto della signora Cristiana e alcune recenti fotografie di Davide, moglie e figlio di Giovanni Brusca. E poi ci sono tre camere adibite a cabine armadio, tantissimi vestiti, costosi e di marca. E in camera da letto, il libro “Cose di Cosa Nostra”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
L'inchiesta sulla latitanza di Giovanni Brusca si trascinava ormai da quattro anni. Un nuovo impulso alle indagini viene da Tullio Cannella, l'imprenditore edile dell'Euromare Village, il fondatore di Sicilia Libera. Cannella è legato da vecchia amicizia a Tony Calvaruso, l'autista di don Luchino, anche lui finito in carcere. In prigione Tullio si pente; Tony invece, sulle prime, non cede.
A fine anno, durante una drammatica udienza di un processo, nell'aula bunker di Rebibbia a Roma, Cannella rivolge un pubblico appello al suo ex amico, invitandolo a fare come lui, a collaborare con la giustizia. Fino ad allora rimasto duro come una roccia, Calvaruso rompe gli indugi, «si mette a Modello tredici» e ci chiama. È il 5 gennaio del nuovo anno. La vigilia della Befana. Per noi, l'autista di Bagarella che collabora è davvero un bel regalo.
Tony Calvaruso ha vissuto per ben due anni fianco a fianco con Leoluca Bagarella e del capo corleonese conosce vizi, abitudini e segreti. Lo ha scarrozzato in macchina qua e là e ha una straordinaria memoria fotografica: ricorda con precisione volti e luoghi. Soprattutto luoghi, covi, tane e rifugi. La sua testimonianza è preziosissima.
È in carcere a Rebibbia, braccio speciale, sotto stretta sorveglianza. Quel giorno, un freddissimo venerdì, chiede un contatto con la Dia e con noi magistrati della procura di Palermo.
Nel parlatorio del carcere Tony esordisce: «Vi posso dare un'informazione utile: so dove Giovanni Brusca si è fabbricato la casa».
Per noi, in quel momento, Brusca rappresenta l'icona del male. Il suo nome è ai primi posti della lista dei latitanti. Insomma, è l'obiettivo numero uno. Si era reso irreperibile quando era stato definitivamente condannato nel maxi processo. «Si era dato latino», come dice il popolo di mafia. È figlio di don Bernardo, vecchio patriarca di San Giuseppe Jato, da sempre legatissimo a Totò Riina.
«Un ragazzo molto sveglio, uno che farà tanta strada» aveva detto di lui, profetico, Tommaso Buscetta, molti anni prima.
I coordinatori delle indagini sulla latitanza di Brusca sono Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi; io entro a far parte del pool alla fine del 1995.
Nei primi giorni del nuovo anno c'è questa bella sorpresa: Calvaruso, factotum di Bagarella, decide di collaborare e ci offre su un piatto d'argento proprio l'indirizzo di Giovanni Brusca. «Una costruzione a fondo Patellaro» dice «località Borgo Molara.»
Lo stesso giorno otteniamo dal ministero l'autorizzazione per far uscire provvisoriamente dal carcere Tony Calvaruso, per condurlo sul posto e farci da guida. La sua collaborazione deve assolutamente rimanere segreta. Ma come sempre in questi casi, sorge l'immancabile problema. Calvaruso divide la cella con altri due mafiosi di «rango». Non devono assolutamente accorgersi della sua improvvisa assenza. Potrebbero mangiare la foglia e far trapelare la notizia. Bisogna escogitare qualcosa. Ci inventiamo un ordine di trasferimento per i compagni di cella: li mettiamo in traduzione per un interrogatorio «qualsiasi» a San Vittore. Trasferiamo i due mafiosi a Milano e Calvaruso a Palermo. Così svuotiamo l'intera cella e il suo spostamento passa inosservato.
Andiamo dritti a Borgo Molara: l'ex autista di Bagarella ci accompagna sul posto e ci indica la casa di Brusca. Poi torna in carcere. Ovviamente in un carcere per collaboratori. Giri per le campagne, curve, strade polverose. Posti inaccessibili e posti qualunque. I luoghi di mafia sono quasi sempre normali, assolutamente anonimi. Anche fondo Patellaro, a Borgo Molara, è un posto come tanti: un classico baglio siciliano con il gruppo di case intorno, circondato da mura di pietra e calce. Da generazioni è di proprietà della famiglia Patellaro che ci abita al gran completo. In mezzo a queste costruzioni, per lo più modeste, ce n'è una un po' meno modesta delle altre. Una palazzina di lusso, perfettamente rifinita. Davanti c'è un bellissimo giardino con piante esotiche e irrigazione automatica.
Il covo
«Quella è la casa di Brusca» ci dice Calvaruso. Il collaboratore ricorda con precisione ma le sue conoscenze sono inevitabilmente datate, vecchie di almeno sette mesi, da quando è finito in carcere.
C'è però pur sempre una probabilità che il killer di Falcone si nasconda ancora lì. Che fare? Fare irruzione, giocarsi il tutto per tutto? Oppure, più prudentemente, aspettare? Decidiamo di non intervenire subito.
Non possiamo permetterci di rischiare, di fare un buco nell'acqua. Probabilmente, col senno di poi, facciamo un errore, errore che mi porto ancora dentro, con grande amarezza.
Forse, al momento di quel sopralluogo, il 7 gennaio, Brusca è proprio lì dentro. E quelle sono proprio le ore decisive per la sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che verrà ucciso quattro giorni dopo, nella notte tra l'11 e il 12. Se fossimo intervenuti subito a Borgo Molara, avremmo potuto arrestare il boss latitante e, forse, salvare la vita a quel ragazzino. Da qui il mio tormento.
In attesa di accertare l'eventuale presenza di Brusca nella villetta, facciamo quattro, cinque giorni di appostamento. Un controllo discreto intorno a quel gruppo di case. A operare, in gran segreto, sono il Servizio centrale operativo della polizia di Stato e la Direzione investigativa antimafia di Palermo e Roma. Intorno alla casa, fuori e dentro, nessun movimento sospetto, a parte un malaugurato elicottero dell'Arma che l'8 gennaio comincia a girare a bassa quota su quella zona. Si sofferma proprio su fondo Patellaro, come un fastidioso moscone che ronza, con la sua elica che solleva terra e polvere. Sapremo in seguito che i carabinieri, ignari della nostra operazione, notando un certo movimento, erano venuti a dare un'occhiata.
Una coincidenza malaugurata perché, proprio a causa dell'elicottero, Rosaria Cristiano, la compagna di Brusca che - come sapremo dopo - è nella casa insieme al figlio Davide di cinque anni, se ne va. Noi non l'abbiamo mai vista uscire, la signora. Ma, una volta pentito, Brusca ci racconterà che, quel giorno, la sua donna era là: «Mia moglie, mentre era in terrazza, si vide spuntare l'elicottero proprio in faccia. E decise di andarsene». Questo ha detto, non una parola di più. La donna ha fatto le valigie e ha abbandonato la casa. Ancora oggi non sappiamo in che modo.
Solo in un secondo momento scopriremo, fra le tante sorprese di quella palazzina, anche un tunnel sotterraneo. Non ancora perfettamente ultimato, ma geniale! Una galleria scavata in profondità. Un enorme tubo d'acciaio interrato, un passaggio segreto che dall'appartamento porta a un fiumiciattolo lì vicino: sbuca proprio sul greto di un torrente, in una zona di vegetazione selvaggia. Probabilmente è stata usata questa via di fuga. Non lo sappiamo, come non sappiamo se anche Giovanni Brusca fosse in casa quando è passato l'elicottero. Lui, in verità, lo nega.
Senza volerlo, i carabinieri hanno determinato la fuga della sua compagna, sotto gli occhi della polizia. Paradossi pirandelliani: siamo pur sempre in Sicilia.
Cose di Cosa Nostra, il libro del giudice
All'alba della domenica successiva, 12 gennaio, decidiamo di fare irruzione. La casa è vuota. Dentro è deserto. Non c'è anima viva. Ma ci sono tracce, segni evidenti di una presenza recente, recentissima.
Troviamo un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. Prova del fatto che, quando iniziano i nostri appostamenti, qualcuno in casa c'è. In un cassetto recuperiamo il passaporto della signora Cristiano e alcune recenti fotografie di Davide. Sono le prime immagini del figlio di Brusca di cui entriamo in possesso.
I segni che troviamo raccontano di una fuga precipitosa. Di sicuro anche il capofamiglia ha frequentato quel «covo». Già, il covo! In gergo si chiama così e chissà cosa si pensa. Questa di Brusca, per esempio, è una casa con tutti i comfort.
Una palazzina a tre piani, rifinita in ogni particolare, molto elegante. Decisamente di lusso. Almeno secondo i «loro» gusti. Forse un po' kitsch: pregiati graniti, rubinetti dorati, sale da bagno con ampie vasche idromassaggio. E aria condizionata, tappeti persiani, frigoriferi con riserve di viveri sufficienti per mesi.
Mi colpiscono le tre stanze armadio. Una per ogni componente della famiglia. Non il classico armadio quattro stagioni, ma tre grandi stanze guardaroba: c'è quella per i vestiti della signora, tutta specchi e abiti firmati. Tailleur di Moschino, pantaloni di Armani, bluse di Coveri.
C'è quella per il figlio Davide e un'altra tutta per Giovanni Brusca e i suoi abiti. Soprattutto le sue camicie. Ne troviamo tantissime, centinaia. Un'intera parete di camicie. Tutte in fila, stirate e inamidate, appese alle stampelle. Sono ordinate secondo il colore: rosa, gialle, azzurre, color menta e color salmone. Un arcobaleno di camicie. A righe, a quadri... Alcune con i polsini per i gemelli. E poi una sfilza di camicie bianche, di seta, di lino, le famose Brooks Brothers venute dall'America.
Scopriamo così, per la prima volta, questo lato vanitoso del boss, questa sua insospettabile eleganza, ricercata e quasi maniacale.
Brusca non c'è, ma ci sono i suoi vestiti. Le pantofole, il pigiama, la schiuma da barba. Insomma tra quelle mura c'è ancora il suo odore. Ci sono le sue tracce. Tracce fresche di un pericoloso capomafia in fuga. Ma non ci sono bigliettini, né documenti, né appunti. Un libro ci incuriosisce: Cose di Cosa nostra, la famosa intervista della giornalista francese Marcelle Padovani a Giovanni Falcone. È in camera da letto, sul comodino. Forse gli è stato regalato da qualche amico per Natale. E magari, mentre noi lo cercavamo, il boss stava leggendo proprio i pensieri della sua vittima «eccellente».
Dopo l'irruzione, Giuseppe Patellaro, il proprietario del fondo che ospita il covo, viene portato via in manette. All'apparenza è un tranquillo signore di mezza età. È il fratello di un noto ciclista siciliano, un campione degli anni Ottanta, Benedetto, che sulle due ruote ha costruito la sua fortuna. Ma la ruota della fortuna gira. E stavolta, per la famiglia Patellaro, gira male. L'accusa di favoreggiamento regge e l'uomo si farà qualche anno di carcere.
In seguito lo stesso Brusca parlerà in dettaglio della sua latitanza, ma sul periodo di Borgo Molara rimarrà sempre molto reticente. Se anche lui fosse lì nei giorni del nostro appostamento; in che modo fosse fuggita la moglie; chi avesse costruito il tunnel sotterraneo... Tutto questo ancora oggi resta un giallo, un mistero. Uno dei tanti.
Quel che è certo è che tra le mura di quel covo avviene il mio primo incontro ravvicinato con l'assassino di Falcone.
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