Ai primi di novembre del 1994 Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro convocano Giovanni Brusca a Misilmeri, in una fabbrica di calce. Il suo mandamento sta esplodendo. A causa di alcuni suoi uomini – Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo e poi Gioacchino La Barbera – tutta Cosa nostra è in grave difficoltà
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
Mi sono messo tante volte nei panni del piccolo Giuseppe Di Matteo, tornando indietro nel tempo a quando avevo la sua età. Ho provato a sentirmi al suo posto, a ricostruire le sue angosce, a immaginare le sue sensazioni, persino a ipotizzare quali potessero essere i suoi pensieri, i pensieri di un ragazzino di tredici anni in quelle condizioni. E l'ho fatto in tutte le circostanze in cui mi sono trovato a dover scrivere o parlare del suo sequestro, cosa che è capitata spesso. Troppo spesso.
Il tragico epilogo di quel rapimento per me - e credo per tutti quelli, tra colleghi e investigatori, che hanno seguito le indagini - è stato un bruciante fallimento, una cocente sconfitta. Soprattutto ha velato di tristezza il mio successivo lavoro alla procura di Palermo. E non è servito a niente individuare e far condannare all'ergastolo quasi tutti i responsabili.
Ostaggio di Cosa nostra per 779 giorni, più di due anni. Poi strangolato con un cappio al collo in una freddissima sera d'inverno. Il suo corpo disciolto nell'acido. Per non lasciare tracce.
Un rapimento senza sbocchi, senza soluzioni, destinato fin dall'inizio a terminare in tragedia. Una delle pagine più crudeli scritte da Cosa nostra. Per vendicarsi del padre che ha scelto di collaborare con la giustizia, i boss gli hanno portato via quello che aveva di più caro: suo figlio.
Il padre è Mario Santo Di Matteo, detto Santino mezzanasca, a causa del suo naso piccolo e leggermente schiacciato da un lato. È un uomo d'onore della famiglia di Altofonte, un paese a una dozzina di chilometri da Palermo: vie irte e strette che si affacciano sugli agrumeti della Conca d'oro, gruppi di case ai margini della strada provinciale che porta a Piana degli Albanesi.
Santino viene arrestato a giugno del 1993. A fine ottobre non ce la fa più a custodire l'orribile segreto che porta dentro. Chiede di parlare con Gian Carlo Caselli. Solo con lui. Solo di lui si fida: «Mi voglio liberare di un peso per sentirmi più leggero. Voglio raccontarle come abbiamo ucciso Giovanni Falcone, come abbiamo eseguito la strage di Capaci».
La sua scelta di tradire Cosa nostra per noi è una pietra miliare. Santino è il primo a rivelare «dal di dentro» l'attentato. È il primo a fare i nomi dei componenti del commando, a raccontare con quanta cura fosse stato preparato l'agguato e quanti mafiosi vi fossero coinvolti. A riferire del ruolo di Giovanni Brusca, l'esecutore finale, di Pietro Rampulla, l'artificiere, di Calogero Ganci, la vedetta...
L'11 novembre vengono emesse le prime ordinanze di custodia cautelare sui responsabili della strage di Capaci che, adesso inequivocabilmente, va ricondotta, almeno per quanto riguarda la fase esecutiva, a Cosa nostra. E non ai soliti servizi nostrani deviati o all'intelligence internazionale, come parecchi in quel periodo insinuavano.
I mafiosi non possono restare indifferenti, devono rispondere. E Giovanni Brusca viene messo con le spalle al muro. Proprio dal suo mandamento provengono le dissociazioni più devastanti per l'organizzazione. Prima Baldassare Di Maggio, detto Balduccio, quello che ha segnalato Totò Riina ai carabinieri e che, da ex reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, conosceva centinaia di uomini d'onore della Sicilia occidentale. Adesso anche Santino Di Matteo, soldato semplice della famiglia di Altofonte, un altro paese compreso nel territorio di Brusca, che ha raccontato di Capaci e ha fatto arrestare qualche altra decina di mafiosi del Palermitano.
Quell’incontro con Graviano, Messina Denaro e Bagarella
Il mandamento di Giovanni Brusca sta esplodendo. A causa di due dei suoi uomini tutta Cosa nostra è in grave difficoltà: il 13 o 14 novembre, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro convocano il capomafia di San Giuseppe Jato a Misilmeri, in una fabbrica di calce.
Gli rimproverano di non aver preso provvedimenti, di essersi fatto sfuggire di mano la situazione. Gli ricordano anche che, nell'estate del 1992, aveva avuto l'incarico di ammazzare Di Maggio e che aveva perso tempo. E così «quello» era andato dai carabinieri. A raccontare tutto.
Le famiglie sono stanche di avere guai provenienti dal suo mandamento. Brusca deve darsi una mossa, deve fare qualcosa. E i tre boss non possono ancora sapere che, meno di due settimane dopo, il 25 novembre 1993, anche Gioacchino La Barbera inizierà a collaborare con la giustizia. Ancora una volta un uomo d'onore della famiglia di Altofonte, ancora un mafioso del mandamento di San Giuseppe Jato, ancora un responsabile della strage di Capaci.
In quella riunione si gioca una strana partita a scacchi. Da un lato Graviano e Messina Denaro, che non hanno nulla da perdere o da farsi perdonare, dall'altro Brusca, responsabile della disfatta del momento, e Bagarella, che non è certo «senza macchia»: suo cognato Pino Marchese, il fratello di Vincenzina, è stato il primo corleonese a collaborare con i magistrati. Ma anche suo cugino Giovanni Drago ha deciso di pentirsi e ha un fratello, Giuseppe, che è pure cognato di Bagarella. Insomma, una bella ragnatela di parentele che in qualche modo frena gli ardori degli uomini d'onore che vogliono sterminare - perché di questo si trattava - i pentiti e i loro familiari.
Se infatti si ricomincia con le vendette trasversali, con l'assassinio indiscriminato dei congiunti degli infami, non si possono lasciare fuori i familiari di Marchese e Drago che, però, sono anche i parenti più stretti di Bagarella.
E Brusca, che capisce di poter sfruttare l'imbarazzo di don Luchino, la prende alla lontana: «I familiari di Di Maggio non si toccano. Mi servono vivi perché per loro tramite voglio arrivare a Balduccio e rùmpirici 'i corna».
«Allora quelli di Di Matteo» dice qualcuno.
«Nemmeno quelli possiamo ammazzare. Piddu, il padre di Santino, è un uomo d'onore, la moglie di Mezzanasca si è pubblicamente dissociata dal marito e il cognato è una persona vicina a me. E mi serve.»
Giuseppe Graviano non ne può più: «Ma Mezzanasca non ha un figlio che viene al maneggio dai fratelli Vitale, a Villabate? Ammazziamo lui».
Graviano lo sapeva bene che era così. Era stato giusto lui a regalare a Giuseppe un cavallo che veniva custodito in quel maneggio, proprio il cavallo della nota fotografia che ritrae il piccolo Di Matteo con la sua bella tenuta da fantino mentre salta un ostacolo. Un purosangue del valore di trentacinque milioni di lire che, grazie all'intercessione del boss di Brancaccio, non era costato nulla ai Di Matteo.
Brusca non sa più dove arrampicarsi ma, in fondo, quel bambino lo ha visto nascere e lo ha anche tenuto sulle ginocchia: «D'accordo, però lo sequestriamo. Non lo uccidiamo subito e cerchiamo di spingere il padre a ritrattare».
L'idea di rapire Giuseppe invece di ucciderlo trova immediatamente il consenso di tutti gli altri boss, primo tra tutti Bagarella che, così, allontana lo spettro di nuove ritorsioni nei confronti dei parenti dei collaboratori a cominciare dai suoi congiunti. In questo modo il sequestro è ufficialmente da ascrivere a una nuova strategia di Cosa nostra, alla necessità di far ritrattare l'infame pentito. Ma non deve passare come una vendetta trasversale nei confronti di Mezzanasca: i mafiosi, quando vogliono, riescono a essere estremamente sottili e cavillosi.
I quattro sono perfettamente consapevoli che quella decisione, in realtà, è solo un modo come un altro per risolvere quell'impasse diplomatica ai vertici di Cosa nostra. I boss sanno che - con la legge allora in vigore - l'eventuale ritrattazione di Santino Di Matteo sarebbe stata carta straccia e il suo silenzio non sarebbe servito a nulla.
L'unico vantaggio possibile può essere quello di indurlo a non raccontare cose di cui non ha mai parlato prima, ma ormai, dopo quasi un mese di interrogatori quotidiani, resta ben poco. «Il bambino aveva una sola possibilità su un milione di uscire vivo dal sequestro» mi confesserà lo stesso Brusca, tempo dopo. In fondo, come aveva sostenuto un paio d'anni prima Totò Riina con la sua logica cinica e stringente, «anche in Bosnia ogni giorno muoiono tanti bambini e nessuno dice niente».
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