L'11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c'è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. Alla tv danno notizia della condanna all'ergastolo del boss latitante Giovanni Brusca per l'omicidio dell'esattore Ignazio Salvo». Brusca va su tutte le furie e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
Sono passati quasi due anni dal sequestro e ormai è un adolescente. Gli sono spuntati i primi peli sul viso, la prima barba. Anche i capelli sono cresciuti. Sono lunghissimi: nessuno glieli ha mai tagliati. Pure dentro è cambiato. Lo hanno fatto cambiare. Ormai è convinto che sia solo colpa del padre. A forza di ripetergli che, se è in quelle condizioni, è solo perché il padre continua a parlare con gli sbirri, se ne è convinto anche lui. E forse comincia a odiarlo.
Dell'ultimo periodo di prigionia del ragazzino a Giambascio sappiamo quasi tutto. Di Giuseppe si occupano Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e il solito Monticciolo. Tutti e tre mi racconteranno la loro «verità».
Forse è il momento in cui il piccolo ostaggio viene trattato con più umanità. Anche perché, paradossalmente, Giuseppe adesso si trova in una prigione vera ed è più semplice averci a che fare. Una vera e propria cella con una porta in ferro e lo spioncino. Come quella di un carcere di alta sicurezza, anche se questa è sottoterra e non ha una finestra. L'unica differenza con un detenuto è che Giuseppe non fa l'ora d'aria e non fa i colloqui con i familiari. E per lui non è certo poco.
Il suo solo contatto «umano» è con Enzo Brusca che lì trascorre un periodo di latitanza. Il ragazzino è appassionato di equitazione ed è tifoso della Ferrari ed Enzo gli procura riviste che trattano di cavalli e giornali sportivi. Qualche volta gli porta anche i quotidiani e, se ci sono articoli che trattano del padre, li ritaglia e li butta via per non farglieli leggere. Un piccolo accorgimento per evitare di scoraggiarlo, di deprimerlo ulteriormente. Ogni tanto a colazione gli dà il latte che Giuseppe, fino ad allora, non aveva più bevuto e, periodicamente, gli taglia i capelli con una macchinetta elettrica. Non escludo che Enzo si fosse in qualche modo affezionato al piccolo ostaggio. Una sorta di sindrome di Stoccolma al contrario.
La situazione è senza sbocchi, però. Non si vedono vie d'uscita. Qualcuno dei carcerieri del piccolo Giuseppe non è contrario a rilasciare l'ostaggio, ma farlo sarebbe una sconfitta umiliante per tutta Cosa nostra. Hanno tenuto segregato per due anni un ragazzino, coinvolgendo uomini d'onore di mezza Sicilia, con lo scopo, ufficiale, di far ritrattare il padre e poi, senza avere ottenuto nulla, lo rimettono in libertà.
Significherebbe perdere la faccia davanti al «popolo» mafioso. Anche Giovanni Brusca è, in qualche modo, prigioniero in questa vicenda. Prigioniero del suo stesso ruolo.
Nel corso della mia requisitoria al processo ho sostenuto che se il ragazzo è rimasto vivo più di due anni, è proprio perché lo aveva in mano Giovanni Brusca che non trovava il coraggio di far scorrere i titoli di coda di questo film dell'orrore, dal finale scontato. «Se il piccolo Giuseppe fosse stato custodito da un altro capomafia» ho affermato «sarebbe stato ucciso molto tempo prima.»
Dalle gabbie dell'aula bunker di Pagliarelli e dalle postazioni di videoconferenza dove si trovavano una sessantina di boss di varie famiglie si sono levate urla, proteste e persino insulti nei miei confronti. Quasi tutti si erano avvalsi della facoltà di non rispondere o avevano negato il loro coinvolgimento nella vicenda. Avevano incassato senza batter ciglio le accuse di aver eseguito materialmente una ventina di altri omicidi per cui erano anche imputati in quel processo, ma non sopportavano di essere additati come potenziali boia del ragazzino.
Sono però convinto che la mia ricostruzione fosse corretta. In fondo Giuseppe muore per uno scatto d'ira, per una scusa, per una giustificazione a suo modo morale che Brusca evidentemente cercava da tempo.
La decisione di ucciderlo
L'11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c'è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Tutti maschi. Come d'altronde tutti i protagonisti di questa storia.
Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. C'è la televisione accesa e il Tg3 delle 14.25, in coda, dà l'ultima notizia appena pervenuta in redazione: «La Corte di Assise di Palermo ha condannato all'ergastolo il boss latitante Giovanni Brusca per l'omicidio dell'esattore Ignazio Salvo».
Brusca va su tutte le furie. Sbatte il pugno sul tavolo e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu». Liberati del cagnolino. Terrificante.
E dire che Santino Di Matteo non c'entra nulla con la sua condanna all'ergastolo per l'omicidio Salvo. Il padre di Giuseppe non sapeva quasi niente di quel delitto. L'«infame» che ha incastrato Giovanni in quel processo è Gioacchino La Barbera. Ma il capomafia di San Giuseppe Jato, a quel punto, dopo due anni e due mesi, aveva solo bisogno di una scusa con se stesso, di un movente qualsiasi.
Il ragazzino si trova nel bunker; in quel momento è sotto la vigilanza di Chiodo. Monticciolo va a cercare Enzo Brusca che si è temporaneamente rifugiato a Partinico. Enzo non se la sente di ammazzare Giuseppe e chiede a Monticciolo di tornare dal fratello. Per cercare di convincerlo a ripensarci. Passano un paio d'ore. Monticciolo arriva a Giambascio. Con sé ha due bidoni da venti litri pieni di acido nitrico. Enzo Brusca e Chiodo, che sono già sul posto, lo guardano interrogativi.
«Giuvanni dissi ca nun si 'nni parla: s'avi a fari ca s'avi a fari!» Nessuna discussione, bisogna farlo – dice secco il genero di Giuseppe Agrigento.
In realtà, Monticciolo non è mai tornato da Giovanni Brusca, non ha nemmeno provato a fargli cambiare idea. Teme che il boss di San Giuseppe Jato possa ripensarci. È stanco di avere sulle spalle il peso di quel maledetto sequestro. Dopo un anno e mezzo non ce la fa più e vuole farla finita.
È ora di cena. I tre mettono sulla griglia alcune bistecche di manzo: mangiano e, poi, si preparano. Chiodo aziona il telecomando. Portano giù un grosso fusto di lamiera e i due bidoni con l'acido.
In tre nella stanza degli orrori
Tutti e tre entrano nella stanza di Giuseppe. Lo fanno girare, faccia al muro. Da dietro gli mettono un cappio al collo. Il ragazzino non ha il tempo di muoversi. È impietrito. Enzo Brusca e Monticciolo lo tengono per le spalle mentre Chiodo tira la corda. Giuseppe non fa alcuna resistenza, non ne ha nemmeno la forza. Si abbandona, quasi si scioglie: «come il burro» diranno i suoi boia.
«Si to patri nun faciva lu curnutu, t'avia a taliari megghiu di l'occhi mii», se tuo padre non avesse tradito, avrei avuto il dovere di proteggerti meglio dei miei occhi, osserva malinconico Enzo Brusca, mentre Monticciolo, facendo leva con il piede, dà gli ultimi strattoni alla corda con il piccolo Giuseppe ormai a terra.
Svestono il cadavere ancora caldo e lo infilano nel fusto. Versano l'acido, un liquido biancastro. Enzo Brusca e Monticciolo baciano sulle guance Chiodo: «Come per farmi gli auguri di Natale». È il suo primo omicidio, il suo battesimo della morte. E che battesimo! «'Sta cosa farà cchiù dannu di la strage di Capaci» commenta ancora il loquace Enzo Brusca.
Poi tutti e tre tacciono e, senza dire nessun'altra parola, vanno a dormire. In silenzio, al piano superiore. Salgono con quella specie di ascensore e richiudono la piattaforma. Alle cinque del mattino Monticciolo va via: ha impegni di lavoro. Ora finalmente può dedicarsi anima e corpo alla sua attività di imprenditore edile.
Vincenzo Chiodo completa l'opera. Usa ancora il telecomando per scendere ma giù l'aria è irrespirabile. Le esalazioni emesse dal corpo ormai quasi corroso dall'acido non gli permettono di fermarsi. Deve risalire, aprire le finestre della cucina e aspettare un po', con la piattaforma abbassata.
Vede che dal fusto spunta ancora una gamba del ragazzino e, appena i fumi si diradano, scende di sotto e mescola con un bastone. Per accelerare i tempi. Nel frattempo porta su tutto il resto: pantaloni, magliette, giornali, bigliettini, il materasso. In aperta campagna fa un falò e comincia a bruciare tutto.
Il cadavere è completamente disciolto, adesso non esiste più. Nel liquido ormai scuro, galleggia solo la corda. Sarcasticamente Enzo Brusca la offre a Chiodo: «To', tienitela come trofeo!» e poi la butta nel fuoco.
Riversano l'acido nel terreno e bruciano tutto. Noi troveremo solo la carcassa di ferro del materasso a molle.
«Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte» sono le testuali parole che pronuncerà Chiodo nell'aula bunker di Mestre davanti alle facce impietrite dei giudici popolari della Corte di Assise che avevano appena sentito il suo racconto, quel racconto dell'orrore.
Giusto l'indomani mattina, il 12 gennaio 1996, faremo quella vana irruzione nel covo di Brusca a fondo Patellaro e, ancora oggi, mi porto il rimorso di quel fallimento. Il dubbio è che se fossimo intervenuti prima avremmo potuto arrestare Brusca e forse salvare il ragazzino.
Probabilmente è solo per tacitare la mia coscienza che ho cercato di convincermi che, comunque, anche se avessimo preso Brusca in quel momento, non avremmo impedito l'assassinio del piccolo Giuseppe. Monticciolo lo avrebbe ucciso ugualmente: era tanto determinato a liberarsi di «quel cagnolino» che non era tornato da Giovanni Brusca a chiedergli conferma dell'ordine, così come gli aveva chiesto Enzo. Ma forse è solo una mia congettura per provare ad attenuare il rimpianto di quel ritardato blitz a Borgo Molara.
La drammatica vicenda di Giuseppe Di Matteo mi ha colpito in maniera particolare. Nel corso della mia esperienza professionale ho visto tanti morti ammazzati, ho assistito a decine e decine di autopsie e perfino a qualche raccapricciante riesumazione di cadavere, ho ascoltato centinaia e centinaia di racconti di violenze terribili, di omicidi efferati, di corpi squagliati nell'acido, di orrende mutilazioni e di quanto di più atroce possa commettere la bestia umana. E non mi sono mai tirato indietro, tranne che in un'occasione.
Da alcune ore, nel carcere di Monza, stavo interrogando Enzo Brusca sul sequestro di Giuseppe.
Avevamo passato in rassegna tutti i covi, tutti gli spostamenti, tutti i carcerieri e le persone comunque coinvolte. Eravamo quasi alla fine: «Abbiamo mangiato e abbiamo preso il telecomando per scendere di sotto. I bidoni con l'acido...».
A quel punto lo avevo bloccato: «Senta Brusca, ho già sentito questa storia tre volte. Da Monticciolo, da Chiodo e, de relato, da suo fratello Giovanni. La dovrò sentire altre quattro volte in dibattimento. Lei ha letto l'ordinanza di custodia cautelare che le è stata notificata. Mi dica solo una cosa: ci sono grandi differenze rispetto a quello che c'è scritto lì?».
«No, solo qualche dettaglio.»
«E allora mi risparmi il resto della storia. Lo racconterà direttamente in Corte di Assise.»
Enzo Brusca ci era rimasto male. Forse voleva alleggerirsi la coscienza ripercorrendo quelle ore
terribili. Io certamente ero venuto meno ai miei doveri di magistrato inquirente, ma non ce la facevo più a sentire quel racconto.
Le trascrizioni di quell'interrogatorio interrotto «sul più bello» saranno poi regolarmente depositate a disposizione dei difensori degli imputati. Gli avvocati dei boss capiranno il mio disagio. Anche per loro non era facile confrontarsi con quella vicenda. Non erano certamente teneri con il pubblico ministero e si aggrappavano a qualunque cavillo giuridico e processuale, ma nessuno di loro solleverà mai eccezioni su quel mio comportamento. In fondo, prima che professionisti, siamo tutti uomini.
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