In una mattina di fine giugno del 1963, fra i mandarini della borgata palermitana di Ciaculli, una Giulietta carica di tritolo esplode mentre un artificiere cerca di disinnescare l’ordigno. Cinque carabinieri – il tenente Mario Malausa, i marescialli Calogero Vaccaro e Silvio Corrao, gli appuntati Eugenio Altamore e Marino Fardelli – e due artificieri dell’Esercito – Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci – saltano in aria.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Il Comandante Generale dell’Arma è Giovanni De Lorenzo, che dal 1955 al 1962 è stato a capo del Sifar, il servizio segreto delle Forze Armate.
Il Comandante ha un suo clan di ufficiali che si è portato dietro dal «servizio». E sono questi a far carriera nell’Arma. Non si fidano di uno come dalla Chiesa, troppo «autonomo», libero, poco affidabile per quei carabinieri con l’anima nera. Dalla Chiesa ha anche un passato da partigiano.
Sono anni di grandi trasformazioni politiche in Italia, i socialisti stanno per la prima volta entrando in un governo di «centrosinistra» e il generale Giovanni De Lorenzo sta preparando il Piano Solo.
Nel 1967, un’inchiesta del settimanale L’Espresso, firmata da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, denuncia il «rumore di sciabole» e il pericolo di un colpo di Stato.
Piano Solo significa riportare un «equilibrio» nel Paese «solo con i carabinieri».
Carlo Alberto dalla Chiesa intuisce finalmente le ragioni delle sue sventure.
Aspetta tempi migliori. E, ancora una volta, va incontro alla Sicilia.
Aspettano tempi migliori anche i mafiosi di Palermo. Molti sono sotto processo. O al soggiorno obbligato, mandati al confino nei primi Anni Sessanta. Una guerra ha decimato e impoverito le «famiglie», la Sicilia è sulle prime pagine dei giornali per i suoi morti.
In una mattina di fine giugno del 1963, fra i mandarini della borgata palermitana di Ciaculli, una Giulietta carica di tritolo esplode mentre un artificiere cerca di disinnescare l’ordigno.
Cinque carabinieri – il tenente Mario Malausa, i marescialli Calogero Vaccaro e Silvio Corrao, gli appuntati Eugenio Altamore e Marino Fardelli – e due artificieri dell’Esercito – Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci – saltano in aria.
Il ministro degli Interni Mariano Rumor si presenta in televisione: «Non si illudano gli associati a delinquere: nella sfida che è impegnata tra essi e lo Stato, lo Stato non sarà certo il primo a stancarsi».
A dicembre, sono 822 i boss di Cosa Nostra rinchiusi nelle carceri.
Tutto per quella faida fra i Greco e i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, mafiosi ma anche ricchi imprenditori edili legati a un uomo che conta tanto a Palermo: il sindaco Salvo Lima.
A Roma, nei primi mesi del 1963 iniziano anche i lavori della Commissione parlamentare Antimafia.
Stretta fra la repressione poliziesca e l’attenzione politica, per la prima volta nella sua storia la mafia siciliana si sente in pericolo. Chi sfugge alle retate ripara in Sudamerica. Altri prendono in considerazione anche la possibilità di «sciogliere» l’organizzazione.
Cosa Nostra, dopo un secolo ufficiale di vita, rischia la rovina. I suoi capi restano nell’ombra per qualche anno, attendono in silenzio le sentenze dei loro processi. È vietato far rumore, è vietato sparare.
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