Luglio del 2018. Dopo anni di impunità e allegro bivacco nelle patrie galere, Giuseppe Casamonica viene ritenuto un boss mafioso. Bitalo è uno dei capifamiglia più rappresentativi, conosciuto dalle altre organizzazioni criminali, temuto, rispettato, ossequiato. Molto legato ai parenti: gli Spada di Ostia. In particolare a Domenico il pugile e a Luciano, il cugino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, quella sul patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi e quella sulla seconda guerra di mafia, si passa adesso al racconto dei Casamonica.
All’arrivo dei carabinieri nella sua reggia in zona Porta Furba a Roma, Bitalo aveva un solo enorme cruccio, una preoccupazione che gli toglieva il fiato, più di ogni altra. Giuseppe Casamonica chiedeva ai militari del suo Rolex. Il Rolex era il suo pensiero mentre gli smontavano casa e andavano in giro con in mano un’ordinanza di custodia cautelare in carcere che contesta il reato dei reati: l’associazione di stampo mafioso insieme a una sfilza di altre accuse, degne di un ras, di un boss, di un criminale di rango. Siamo nel luglio del 2018.
Il mondo sembra capovolto, uno sconvolgimento, tutto accade all’improvviso, di soprassalto, dopo anni di impunità e allegro bivacco nelle patrie galere: Giuseppe Casamonica viene ritenuto un boss mafioso, il capo della sua famiglia, quella del vicolo di Porta Furba. I Casamonica non conoscono piramide, non conoscono vertici, capi assoluti, se non, in teoria, quel Guerino, padre di Giuseppe, che a tarda notte lungo i viali ama intrattenersi con vino rosso e altri inebrianti. E un ubriaco perde di diritto lo scettro della famiglia, diventa un relitto, un peso morto.
Ma Bitalo è uno dei capifamiglia più rappresentativi, conosciuto dalle altre organizzazioni criminali, temuto, rispettato, ossequiato. Negli anni si è fatto strada, e si è unito con gli Spada, in particolare Domenico, il pugile e con Luciano, il cugino.
Il traffico di droga
Un gruppo solo, considerato mafioso dagli inquirenti, in attesa dei giudici che ne chiariranno la natura. Già nel 2009 un’operazione di polizia aveva portato Casamonica in carcere per traffico di stupefacenti, i cui proventi venivano poi investiti comprando auto di lusso, ville e locali.
E il gennaio 2009 quando a vicolo Porta Furba i carabinieri arrestano Bitalo con il supporto dei vigili del fuoco che devono forzare le porte blindate, protette da una doppia grata d’acciaio.
Giuseppe Casamonica gestiva un giro di cocaina, i componenti del gruppo ricevevano quattrocento telefonate al giorno.
«Per comprare la droga» racconta un consumatore, «io chiamavo prima. Mi rivolgevo a Enrico Casamonica. Cambiavano numeri ogni settimana, per farti comprare la prima volta doveva presentarti qualcuno, altrimenti niente. L’ingresso era quello laterale, non quello dove arrivano le auto, una sola volta ho sbagliato e mi dissero che avevo esaurito le cazzate. Per comprare cocaina facevamo la fila, c’erano tutti i tipi di persona. Quando compravo mezzo grammo mi dicevano “ma che cazzo sei venuto a fare?!”.» «Tutti i tipi di persona» nella città che è diventata snodo del narcotraffico. Ma non c’è solo la cocaina nel grande bazar della casata. È tarda sera quando a cinquecento metri da Porta Furba incontro un altro tossico che le droghe le ha provate tutte e i Casamonica li ha incrociati. «Il fumo, la cocaina, l’eroina mi hanno fatto compagnia nella mia vita, oggi sto provando a disintossicarmi, ma faccio fatica. I Casamonica? Li ho incontrati, il mio spacciatore africano ha fatto il carcere con un Casamonica, sono loro a fornirgli l’eroina.»
A comandare quel fortino, per i carabinieri, la Procura, il gip era Bitalo. Ma anche per i giudici di primo grado: viene infatti condannato e finisce in carcere dove deve scontare un cumulo di pene per diversi reati. In carcere, però, Casamonica finisce a Rebibbia, a Roma. Vicino a casa, per non avere nostalgià. E da li continua a comandare. «A Rebibbia» racconta un agente penitenziario «c’è un grande prato verde, come diceva la canzone, dove oltre alle speranze i capi danno gli ordini, fanno come gli pare.» Un’area verde, dove è difficile ascoltare e intercettare e quindi i messaggi escono e anche gli ordini. così «Casamonica ha continuato a coordinare l’attività del sodalizio, venendo costantemente aggiornato dai familiari che si recano periodicamente al colloquio».
Perché in carcere alcuni agenti sono amici, raccontano i delatori del clan, e anche far entrare la droga può essere molto semplice. Ma non basta. Per Bitalo, nonostante il soggiorno accomodante, le porte del carcere si aprono. Sembra incredibile, ma è davvero successo. Bitalo finisce in comunità come un tossico: lui, il capo che passa per ultimo, disperato, malato cronico. E finisce in comunità a Frosinone. Nel 2017, quando anche i sanpietrini sapevano chi fosse Giuseppe Casamonica – precedenti di ogni genere, violenza, traffico di droga, estorsione, e considerato capo nelle operazioni che l’avevano visto coinvolto – viene emesso il decreto dal Tribunale di sorveglianza, che lo libera dalla detenzione.
Il decreto inizia parlando della sua carriera criminale: «Dalla verifica della sua storia giudiziaria risulta infatti una lunga devianza legata alla sua condizione di tossicodipendente […] Peraltro egli non commette reati dal 2009 e nel corso della detenzione ha manifestato concreta volontà di intraprendere un percorso terapeutico riabilitativo presso la Comunità (il Dialogo, con sede a Trivigliano, vista lago, n.d.a.)». Non commette reati dal 2009, ma è anche vero che dal 2009 Bitalo era detenuto nelle patrie galere.
Ciò appurato, legittimamente il Tribunale di sorveglianza fa suo il parere di asl e sert e le relative certificazioni e spiega come Bitalo sia finito in questo brutto giro della tossicodipendenza: «Occupandosi della gestione di un locale notturno a Roma, è entrato in contatto con ambienti sociali nei quali era diffuso e abituale l’uso di sostanze stupefacenti». Insomma Giuseppe Casamonica gestiva lo spaccio, ma il problema era l’ambiente che frequentava. C’è un passaggio anche sulla famiglia, in buona parte già interessata da inchieste giudiziarie: «La famiglia rappresenta per lui un valido sostegno». E con questo suggello, si manda Bitalo a disintossicarsi, sperabilmente levandogli il gusto per le cattive compagnie.
A scrivere per prima questa storia davvero incredibile e la cronista Floriana Bulfon, ma purtroppo il suo articolo finisce nelle pagine interne con un titolo emblematico: Camera vista lago e meditazione, la dolce pena di Casamonica. Se ne accorgono in pochi. E chi se ne accorge fa finta di niente. È solo un tossico meritevole di attenzione medica.
Immaginate lo stesso trattamento riservato al capo di una cosca locale di ’ndrangheta, al capo di un clan di camorra. Avrebbe provocato reazione unanime o quanto meno più di qualche articolo in fondo ai giornali, forse una interrogazione parlamentare, una dichiarazione di un ministro, una denuncia pubblica da parte dell’opposizione. E, invece, niente. Silenzio assordante.
Quel silenzio rotto per il funerale, per i petali e per l’elicottero, ma non per il destino dorato riservato a Bitalo.
Il controllo del territorio
Non c’è solo la disattenzione, ma anche il metodo della dinastia.
Eh si. Perché in questa sottovalutazione c’è un dato immancabile: derubricare a cialtroni, ladruncoli, manigoldi, banda di zingari soggetti, invece, capaci di tenere in pugno imprese, persone, vite e territori. E sono i Casamonica i primi a spandere questa nuova ondata di inchiostro, nella quale i reati gravi diventano colpi di testa, l’organizzazione di usura e spaccio e mischiata a innumerevoli episodi minori o minimi, degni di film con Er Monnezza. E tutto quanto finisce in poco o niente, dal punto di vista giudiziario.
Nel 2018, all’arrivo dei carabinieri nella sua reggia in zona Porta Furba, l’accusa e diversa. Questa volta a Giuseppe Casamonica viene contestata associazione a delinquere di stampo mafioso. E mentre scriviamo e recluso al 41 bis, il carcere duro per i criminali di rango.
I miracoli romani, la città dove, in un solo anno, da tossico si diventa come Toto Riina.
E dire che tutto si sapeva, volendo, da molto tempo. Giusto all’inizio del millennio, Giuseppe e suo cugino Vittorio vengono arrestati. Chiedono i soldi a un pizzettaro, che ha il suo locale su via Tuscolana, in zona Porta Furba. A Vittorio viene contestato di aver incassato 130 000 lire per la restituzione di un motorino sottratto qualche giorno dopo. A Giuseppe viene contestato di aver incassato 300 000 lire per garantire protezione al locale.
In questa storia emerge un punto chiave di una organizzazione criminale, il controllo del territorio che, nel caso dei Casamonica è capillare: loro devono assoggettare chiunque a ogni costo.
Entrare in rapporti con un imprenditore puo portare benefici di ogni genere. Estorsione se va male, usura se va meglio, entrambe entrando in possesso del locale se va benissimo. Non bisogna sottovalutare nulla, neanche il pizzo al pizzettaro.
Purtroppo per loro, dopo le prime richieste, i titolari della pizzetteria denunciano. Dopo la denuncia i carabinieri tendono una trappola a Casamonica e inizialmente ci riescono. Bitalo incassa i soldi dell’estorsione, poi si insospettisce e li restituisce. Per gli inquirenti, però, e tutto chiaro, Casamonica così viene arrestato. L’estorsione per gli inquirenti si era consumata. C’erano le telefonate, i testimoni minacciati, i riscontri, la cessione dei soldi. In quelle telefonate, in quegli incontri registrati c’era tutto per capire l’organizzazione targata Casamonica. C’erano gli elementi cardine di quell’associazione mafiosa poi contestata nell’operazione Gramigna, nel luglio 2018.
Tutto era già noto almeno quindici anni prima. Al telefono Giuseppe Casamonica diceva: «A Roma ci sono i Casamonica e basta». Quando l’interlocutore poneva problemi di sicurezza al locale, Bitalo lo rassicurava: «Dove stiamo noi nessuno viene a rompere il cazzo». Dall’altro capo del telefono c’è un agente sotto copertura, ma Casamonica non lo sa: «La famiglia nostra è tutta unita, e la razza proprio che e fatta in questa maniera».
Comandano loro, la protezione e certezza di tranquillità, i Casamonica sono casata che non teme concorrenza.
Giuseppe Casamonica viene condannato per estorsione nel 2008 a sei anni, ma senza aggravante mafiosa perché il clan non c’era. Per gli altri reati scatta la prescrizione, prescritto anche il reato commesso da un socio di Giuseppe Casamonica che si era prodigato accedendo ai tabulati Tim e permettendo a Bitalo di venire a conoscenza del fatto che i carabinieri indagavano su di lui. In pratica questo sodale si mette a controllare tutti i numeri in entrata sul telefono di Giuseppe Casamonica allertandolo sull’indagine in corso. E nelle pieghe processuali alcuni testimoni balbetteranno come spesso accade quando ci sono i “nullafacenti” sotto accusa. Casamonica è stato arrestato nel 2000 e viene condannato in primo grado nel 2008, otto anni dopo.
Gli avvocati di Casamonica presentano ricorso in appello. La sentenza di secondo grado arriva sei anni dopo, nel 2014. Sei anni dopo, il processo nei due gradi di merito si chiude quattordici anni dopo l’arresto. Un’eternità, l’eternità che salva Bitalo.
Anche il reato di estorsione finisce prescritto, commesso, ma prescritto, con buona pace della giustizia e delle vittime e a Giuseppe Casamonica vengono restituite anche le somme di denaro sequestrate. C’è un dato che ci aiuta a capire questo ritardo, queste calende greche che fanno affondare ogni credibilità della macchina giudiziaria. Giovanni Melillo è un magistrato, oggi e procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.
Ha spiegato con i numeri questo andazzo: «Roma e Napoli fanno da sole il 35-36 per cento di tutte le prescrizioni dichiarate dalle Corti d’appello italiane». Quando scrivi la parola prescrizione, cancelli la parola giustizia. Bitalo ha passato una vita tra estorsioni, violenze, traffico di droga, eppure lui un lavoro lo svolgeva, poco e raramente, ma lo faceva. Bitalo era una guardia, una guardia privata.
«Nei locali che contano» racconta uno beninformato sul mondo della notte «c’erano sempre loro e tutto andava liscio. Quando loro non c’erano, era sempre infernale. A Ostia chiamavano loro, li contattavamo andando in un pub. Così eravamo tranquilli.»
Di lavorare Giuseppe Casamonica non ha mai avuto molta voglia, anche se di soldi ne ha a palate, alcuni ficcati nei muri e altri, tanti, investiti in locali e in una rete di teste di legno.
I suoi redditi parlano chiaro. A quanto risulta, l’unica mansione svolta e quella di buttafuori, di guardia privata. Nei locali suoi o diventati della dinastia c’era la vigilanza, un altro modo per controllare, per esserci, per spargere il seme della casata.
E proprio per contrasti nella gestione delle agenzie di sicurezza Giuseppe Casamonica viene messo nel mirino di Domenico Pagnozzi e Michele Senese, due boss di camorra di stanza a Roma. Pagnozzi, detto “u paese”, doveva uccidere Bitalo affidandosi alle mani di un killer, ma alla fine, scattano gli arresti e Casamonica resta in piedi, vivo e vegeto.
Testi tratti dal libro di Nello Trocchia "Casamonica. Viaggio nel mondo parallelo del clan che ha conquistato Roma". Testi, nomi e processi sono riportati nella serie del blog Mafie così come presentati nel libro, aggiornati dunque al 2019.
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