Secondo quanto dichiarava, il marito considerava Leggio il nemico n.1, in quanto riteneva che «l'avesse con lui», a titolo personale. Ed era convinta che al di sopra delle responsabilità degli esecutori materiali del delitto, vi erano altre responsabilità ad alto livello, verosimilmente di natura politica
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Cesare Terranova, il primo giudice a mandare a processo per associazione a delinquere la cosca di Corleone.
Giovanna Giaconia era la vedova del giudice Terranova. Secondo quanto dichiarava, il marito considerava Leggio il nemico n.1, in quanto riteneva che "l'avesse con lui", a titolo personale. Quando rientrava in magistratura, il maresciallo Mancuso le aveva esternato la preoccupazione che le minacce in passato ricevute dal giudice fossero sempre attuali. Non sapeva però che dopo il rientro in magistratura avesse ricevuto altre minacce.
Nel 1964 quando Liggio veniva arrestato a Corleone, pretendeva di essere interrogato dal Terranova in infermeria. Il giudice invece se lo faceva portare davanti in barella. Il giudice ancora di recente ricordava l'espressione del viso e degli occhi di Liggio e diceva che aveva la schiuma alle labbra per la rabbia e che se avesse potuto lo avrebbe ucciso. In quell'interrogatorio Liggio dichiarava di non ricordare neppure le generalità e Terranova, alla voce paternità, faceva scrivere: "Non sa di chi è figlio", cosa che l'imputato prendeva come affronto personale.
Più di recente, allorquando Terranova con i componenti della Commissione antimafia era andato ad interrogare il Liggio in carcere, costui tenne sempre lo sguardo fisso su di lui. A detta del Terranova era uno sguardo di odio.
Nei mesi precedenti il giorno dell'omicidio, il giudice non aveva dato segni di preoccupazioni o turbamenti. Dichiarava che in data 1/3/78 il marito redigeva un testamento, che era stato aperto dopo la sua morte.
Nel febbraio dello stesso anno era stato informato dal Colonnello dei C.C. Sateriale delle dichiarazioni fatte dal boss mafioso Di Cristina, circa le intenzioni della cosca di Luciano Leggio di sopprimerlo. Nel maggio-giugno dello stesso anno aveva incaricato i suoi amici Miccichè ed Angelo Randazzo di essere i suoi esecutori testamentari. Era convinta che al di sopra delle responsabilità degli esecutori materiali del delitto vi erano altre responsabilità ad alto livello, verosimilmente di natura politica. [...].
I carabinieri sanno di Liggio
Il generale dei C.C. Mario Sateriale veniva informato dal Capitano Pettinato delle informazioni attinte dal Di Cristina, la stessa sera in cui erano state fatte e cioè il 26.7 .78. Immediatamente informava i colleghi di Ancona della programmata evasione del Liggio in occasione di un processo. Successivamente veniva a sapere che nell'aprile del 78 si era celebrato a Palermo un processo a carico del Leggio. Alla presenza del maggiore dei C.C. Subranni e nel proprio studio, informava il Terranova relativamente all'attentato.
Il colloquio con il Terranova avveniva a distanza di un paio di giorni da quando aveva appreso la notizia. Incaricava il capitano Pettinato di incontrarsi personalmente con il Di Cristina. Il Ten.Colonello Antonio Subranni su incarico dell'allora maresciallo Sateriale aveva rintracciato il dr. Terranova per invitarlo ad un incontro in caserma. Lo rintracciava dopo un paio di
giorni. In sua presenza il Sateriale informava il Terranova delle confidenze del Di Cristina.
Le testimonianze rese dai verbalizzanti sono sicuramente attendibili non essendo emerso alcunché atto a far ritenere che gli appartenenti alle forze dell'ordine abbiano riferito fatti diversi da quelli accertati.
Egual valenza hanno le dichiarazioni fatte dai testimoni oculari del delitto in precedenza indicati in ordine alla dinamica dell'azione criminosa, convergendo esattamente con i dati di prova generica. Di nessun pregio invece sono le dichiarazioni relative alle sembianze dei due autori del duplice omicidio, apparendo contraddittorie e divergenti in modo radicale. Egual valenza hanno infine ai fini processuali le testimonianze rese dai rimanenti testi oculari giacché evidenziano soltanto la paura che la gente aveva della delinquenza organizzata.
Ed invero, all'epoca dei fatti, la pressione mafiosa sul territorio palermitano era notevole. Ne è prova l'episodio narrato da Pagliotto Arrigo, autore di una informativa sul conto di Marino Giovanni, che è agghiacciante, irreale, degno della migliore letteratura sul fenomeno mafioso, incredibile se non fosse accaduto sotto gli occhi del teste. Riferiva infatti il verbalizzante che allorquando a Corleone si diffondeva la notizia che Luciano Liggio era stato assolto dalla Corte di
Assise di Bari, una donna, che gestiva un negozietto al centro del paese e non si faceva vedere in giro, usciva per la strada e tutto il paese le sfilava davanti per baciarle la mano. Era la sorella di Luciano Liggio.
Orbene, poiché si comunica non solo con le parole e con gli scritti ma anche con i gesti ed i comportamenti, la sortita inconsueta ma tempestiva della sorella alla notizia dell'assoluzione da un importante processo del fratello mafioso ed il conseguente pubblico e generale baciamano, simboleggiano, rendendola pubblicamente manifesta, la reintegrazione in possesso del padrone nei propri domini ed il riconoscimento della sua signoria e poiché il Leggio, ancorchè assolto,
era sempre un delinquente, l'avvenimento fu sicuramente causato dalla paura del suo imminente ritorno.
Era dunque l'emozione subdola ed oscura della paura che condizionava i comportamenti delle persone e provocava acquiescenze, silenzi, reticenze, omertà, a Corleone come a Palermo, ove si era spostato il centro d'interesse del clan dei corleonesi.
In Cassazione l’impianto accusatorio non regge
Le rivelazioni di Giuseppe Di Cristina costituiscono oggetto delle testimonianze rese da Pettinato Alfio, ufficiale dei C.C., e dal M.llo Pietro De Salvo. Sono state ampiamente esaminate dai giudici di merito e dalla Corte di Cassazione, in quanto erano uno dei pilastri dell'accusa anche nel processo instaurato a danno di Leggio Luciano, per l'assassinio del Terranova.
Trattasi di dichiarazioni confidenziali, non verbalizzate, né registrate, fatte dal Di Cristina ai due militari e dal Pettinato trasfuse in un rapporto di P.G. inoltrato all' A.G. di Caltanissetta qualche mese dopo, a seguito delle indagini effettuate per l'assassinio del confidente e successivamente riferite all'autorità inquirente e giudicante dopo l'uccisione del giudice Terranova e del m.llo Mancuso. Venivano dai Carabinieri raccolte alla fine di febbraio 1978 e tra l'altro vi emergeva che il
clan mafioso del Leggio, su impulso dello stesso, avrebbe potuto uccidere il Terranova. Il Di Cristina, nonostante fosse stato appositamente sollecitato dal m.llo De Salvo, aveva omesso di indicare quale fosse la fonte delle sue conoscenze e perciò non si era mai potuto
stabilire come ed attraverso quali canali avesse appreso che si progettava di uccidere il magistrato. In considerazione di ciò, la
Suprema Corte di Cassazione nella sentenza emessa il 10.5.88, con la quale rigettava i ricorsi sporti avverso la sentenza emessa della Corte d'Appello di Reggio Calabria relativamente al processo contro Leggio Luciano di cui si è detto, definiva le confidenze in esame dichiarazioni de relato sprovviste dell'indicazione della fonte.
Il giudizio espresso dal Supremo Collegio è pienamente condivisibile, non essendo emerso nulla che possa indurre legittimamente in contrario avviso. Pertanto, devesi concludere che le rivelazioni rese de relato dal Di Cristina, al pari delle già esaminate dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta, violino le prescrizioni dettate dall' art. 195 c.p.p., non avendo il dichiarante ottemperato all'obbligo di rivelare le generalità delle persone che avevano conoscenza diretta dei fatti. Ne consegue che le rivelazioni in esame devono essere giudicate inutilizzabili […].
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