Perché chiamare in causa i Graviano in questa indagine sul depistaggio di via D’Amelio? Perché a quella strage sono intimamente legati il destino di Totò Riina e la sua strategia eversiva, molto più articolata di una semplice vendetta mafiosa. Ma c’è altro: la cattura di Riina, ciò che lo precedette (l’arresto di Balduccio Di Maggio) e le soffiate raccolte e smistate a chi di dovere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
A 29 anni dalla stagione delle stragi – essendo morti, detenuti in carcere al 41 bis, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, considerati gli organizzatori della campagna per conto di Cosa Nostra; essendo latitante da 25 anni Matteo Messina Denaro, ultimo rappresentante dell’“era corleonese”, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano sono da una decina d’anni emersi come i principali depositari dei segreti di quel periodo storico.
La loro storia è abbastanza inusuale. Citati solo marginalmente dai grandi pentiti degli anni Ottanta (Buscetta, Contorno, Marino Mannoia) si comincia a parlare di loro verso fine secolo (per esempio Nino Giuffrè li indica come notoriamente legati ai Servizi) e per le rivelazioni di Gaspare Spatuzza.
I Graviano, si scopre, appartengono ad un’antica e molto ricca famiglia di mafia, e controllano il quartiere Brancaccio, noto come la “zona industriale” di Palermo, in cui hanno compiuto importanti investimenti edilizi. Il capofamiglia Michele Graviano (possidente, a capo di molte attività economiche di grande valore, dal commercio di frutta e verdura, all’edilizia, all’export internazionale, titolare di pacchetti azionari) viene ucciso nel 1982, agli inizi della guerra di mafia che contrappone Bontade-Inzerillo a Riina e i suoi corleonesi.
A compiere l’omicidio è Gaetano Grado. A reggere la famiglia viene chiamato Giuseppe Graviano, che ha appena vent’anni. Questi si dimostra molto intraprendente e in grado compiere scelte radicali, prima fra tutte quella di spostare tutti gli affari di famiglia fuori da Palermo, al nord Italia, in Francia e in Svizzera. Lui stesso, latitante dopo una condanna al maxiprocesso, prende di fatto la sua residenza ad Omegna (Novara), sul lago d’Orta, a partire dal 1991.
Insieme al fratello Filippo e alle rispettive fidanzate, Giuseppe Graviano viene arrestato dai carabinieri a Milano nei giorni della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Da allora i due fratelli sono in carcere al 41 bis.
Il loro nome divenne conosciuto a livello nazionale il 15 settembre 1993 quando, nel quartiere Brancaccio, venne ucciso padre Pino Puglisi, in un delitto che non aveva precedenti in Italia. Le fotografie dei fratelli Graviano, indicati immediatamente come mandanti del delitto, furono mostrate in televisione e campeggiavano su tutti i quotidiani. Ricercati, irreperibili…. E invece i due fratelli circolavano tranquillamente, senza travestimenti e senza protezione, nel piccolo paese di Omegna.
Dopo il loro arresto – quattro mesi dopo, a Milano - cominciarono a circolare le prime voci del loro coinvolgimento sia nella strage di via D’Amelio che nelle stragi continentali. La procura di Firenze, esaminando i telefonini del clan e raccogliendo le prime testimonianze sulla loro latitanza, fece giganteschi passi avanti nell’investigazione.
Nel 1997 venne arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano; come sappiamo, Spatuzza confessò immediatamente l’omicidio di don Puglisi e la sua partecipazione sia alle stragi di Capaci e via D’Amelio, che a quelle continentali. Disse di aver fatto tutto questo su ordine di Giuseppe Graviano, per cui nutriva autentica “devozione”.
Il ruolo di Balduccio Di Maggio
Perché chiamare in causa i Graviano in questa indagine sul depistaggio di via D’Amelio? Perché a quella strage sono intimamente legati il destino di Totò Riina e la sua strategia eversiva (di cui abbiamo riferito nel primo capitolo di questa relazione), molto più articolata d’un semplice movente affidato alle ragioni della vendetta mafiosa.
Ma c’è altro: la cattura di Riina, ciò che lo precedette (l’arresto di Balduccio Di Maggio), le soffiate raccolte e smistate a chi di dovere. E qui entrano in scena, nuovamente, i fratelli Graviano. Questo il racconto che di quei giorni fa Enrico Deaglio nel suo libro “Patria 2010-2020”.
Qualcuno si ricorda di Balduccio Di Maggio? Se no, siete scusati, perché fu una meteora. Era l’autista di Riina e fu lui a portare i carabinieri sotto casa sua. Poi disse di aver assistito al bacio tra Andreotti e Riina stesso. Per i suoi servizi, presenti e futuri, fu pagato – dallo Stato – 500 milioni, ma al processo Andreotti la sua testimonianza risultò un boomerang per la Procura di Palermo. Poi scomparve. Oggi non si sa dove sia né che faccia abbia: ai tempi era proibitissimo pubblicare una sua fotografia.
Io me ne stavo, un po’ sbadigliando, ascoltando su Radio Radicale la fluviale deposizione di Graviano, udienza del 21 gennaio 2020, quando appizzai le orecchie. Racconta Graviano che, una volta a Omegna (dove, ci tiene a ricordare, era “favolosamente protetto”), era stato in giro tutta la notte con il fratello Filippo, le fidanzate, un certo Cesare Lupo di Brancaccio e Salvatore Baiardo, il suo favoreggiatore ad Omegna, ed erano poi finiti a casa di Baiardo a giocare a poker.
Si ricorda che era inverno, che la casa di Baiardo era sulle pendici del Monte Mottarone, che c’era la neve e che era prima del Veglione di Capodanno 1992-1993. Si ricorda che, tra un piatto e l’altro, si fecero le 7 del mattino e allora Baiardo scese a prendere dei cornetti per la colazione. Baiardo torna su con i cornetti e fa: “Oh, la sapete la notizia? Hanno arrestato Balduccio Di Maggio, sta parlando e lo tengono qui, in una villa di Omegna”. Gli chiedono: “Scusi, Graviano, ma a Baiardo chi l’aveva detto?”. Graviano fa: “Oh, Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto”.
Segue un imbarazzato silenzio, perché la narrazione ufficiale è diversa e dice che Di Maggio venne arrestato l’8 gennaio, che trattò la taglia e il racconto del bacio di Andreotti direttamente con il generale dei carabinieri Delfino e che tutto venne tenuto segreto fino a dopo la grande farsa della cattura di Riina a Palermo avvenuta il 15 gennaio 1993.
Ma Graviano non si ferma lì. Racconta che è stato lui a far venire al Nord Balduccio, che era entrato in urto per una donna con un tipaccio come Giovanni Brusca, proprio per impedire che Brusca lo uccidesse. Gli aveva trovato una sistemazione a Borgomanero (15 chilometri da Omegna), dove c’era già una colonia di siciliani che si occupavano di recupero crediti per dei tontoloni industriali piemontesi.
E, in sostanza, lo aveva messo in mano al generale dei carabinieri Delfino. Che sia questa la ragione della “favolosa protezione”? Graviano ci tiene a dire che, saputa la notizia, non avvisò il suo amico Riina.
Il generale Francesco Delfino (morto nel 2014) ha avuto una lunga e misteriosa carriera, nell’Arma e ai vertici del Sismi, il nostro servizio segreto militare. Tra le sue tante avventure, una lo vede come l’unico agente segreto italiano a visionare il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, sede a Milano, trovato penzolante sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, anno 1982.
Era diventato il banchiere della mafia, però aveva perso i loro soldi, era debole e avrebbe potuto parlare, quindi la mafia lo uccise. E i servizi segreti c’entrarono, eccome.
Un possibile strangolatore era stato considerato Francesco Di Carlo, che dei vertici del Sismi era buon amico; ma poi la versione ufficiale accreditò dell’uccisione tale Vincenzo Casillo, dirigente della camorra napoletana e – toh – membro coperto del Sismi. Il quale fu poi fatto saltare in aria a Roma, proprio di fronte alla sede del Sismi, da Pasquale Galasso, dirigente della Nuova Famiglia associata a Cosa Nostra. Un tipo inconsueto, questo Galasso.
Giovane, colto, simpatico, aveva ammassato un patrimonio di 1500 miliardi delle vecchie lire e aveva un debole per le splendide dimore. Arrestato nel 1992, si pentì subito. Lo misero agli arresti domiciliari, in una sua proprietà: un favoloso castello neogotico appartenuto ai marchesi Savaroli, a Miasino, di fronte all’Isola di San Giulio, che dista cinque chilometri da Borgomanero e dieci dalla villa del generale Delfino.
Insomma, erano tutti lì, in un fazzoletto intorno al lago. Graviano, Galasso, Di Maggio, Delfino, un bel concentrato di misteri mafiosi e finanziari dell’Italia moderna. Peraltro, Graviano ci tiene a dire che lui e Galasso si incontravano, passeggiando sul lungolago. Di che cosa parlavano, Graviano non lo dice.
Ad agosto del 1992 il generale Delfino chiese di essere ricevuto dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Gli confidò che gli avrebbe fatto un regalo di Natale, l’arresto di Riina. Nella stessa estate, il colonnello dei carabinieri Mario Mori, anche lui dei servizi, stava trattando lo stesso argomento con il socio di Riina, Bernardo Provenzano.
A settembre anche il ministro dell’Interno Mancino prospettò che Riina sarebbe stato arrestato a breve, e le sue fonti erano la polizia. Insomma, lo sapevano tutti, tranne il povero Capo dei capi. O forse l’aveva capito anche lui. Adesso apprendiamo che anche Giuseppe Graviano vorrebbe che gli venisse riconosciuta la sua parte di merito. Però, quanta poca mafia c’è in questa storia, e quanti servizi.
Il regalo di Natale
Sul “regalo di natale” - la cattura di Riina - promesso all’allora ministro della giustizia dal generale Delfino, la Commissione ha chiesto a Claudio Martelli il suo ricordo di quell’episodio.
MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Fu il mio caro amico, già sindaco di Milano, Aldo Aniasi all’epoca parlamentare della Repubblica, che mi telefonò un mattino, siamo verso la fine di luglio, sì, dopo l’assassinio di Borsellino, per dirmi: “guarda, c’è un mio amico, che io conosco bene, è un bravo carabiniere, un bravo generale dei carabinieri, si chiama Delfino, ha delle cose da dirti, ti vorrebbe parlare, ricevilo… vedrai che non ti faccio perdere del tempo”.
Dissi: “digli di chiamarmi, ci mettiamo d’accordo”, e così chiamò la mia segreteria e venne a trovarmi. Insomma, per farla breve cominciai a parlare io… io gli avevo descritto un po' la situazione in cui eravamo, e quindi era certamente una brutta situazione dopo via d’Amelio, dopo Capaci e lui mi disse “Ministro non si demoralizzi, stia tranquillo che le cose si metteranno bene, glielo faccio io un regalo di Natale, entro Natale lei vedrà che le portiamo Totò Riina”. “Magari” feci io… Il 15 di gennaio Totò Riina viene arrestato.
Dunque, chi era il generale Delfino era il comandante dei Carabinieri nel sud del Piemonte, là dove era in domicilio coatto Balduccio di Maggio, l’autista di Totò Riina. Quello che ho immaginato dopo (ma nessuno si è peritato di dirmelo né Delfino, che non ho mai più rivisto, né nessun altro) è che avevano sotto controllo questo Di Maggio e sono riusciti a spingerlo alla collaborazione… I Carabinieri hanno una loro omertà che farà onore allo spirito di corpo, ma fa poco onore alla verità, talvolta la verità dovrebbe prevalere…
Di segno non diverso anche l’opinione di Antonio Ingroia che a Reggio Calabria, proprio su questo tema, ha controinterrogato Giuseppe Graviano.
FAVA, presidente della Commissione. Lei è stato avvocato a tutela dei familiari dei due carabinieri uccisi, Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, nel processo alla ‘ndrangheta stragista, nel febbraio dell’anno scorso. Ed ha controinterrogato Giuseppe Graviano, che era imputato. Proprio rispondendo a lei, Graviano dice che lui sapeva che Riina sarebbe stato arrestato perché sapeva della collaborazione di Balduccio Di Maggio ben prima di quanto venne poi annunciata. È un quadro che ci porterebbe a ridisegnare i tempi e le dinamiche che hanno portato all’arresto di Totò Riina. Un quadro che lei ritiene plausibile?
INGROIA, già magistrato. Io ho sempre pensato che Totò Riina sia stato consegnato da Cosa nostra come capro espiatorio, in quanto principale responsabile della stagione stragista, per proseguire il dialogo che era iniziato. Ho sempre pensato che Balduccio Di Maggio lo avesse fatto soprattutto avendo dietro Bernardo Provenzano… Siccome con gli anni ho imparato a non credere più alle coincidenze, soprattutto in certe situazioni, il fatto che ruotassero nel medesimo territorio, Giuseppe Graviano assieme a Baiardo… mi fa pensare che forse nel tempo, negli anni abbiamo sottovalutato un ruolo più attivo di Graviano, ancora di più di quello di Bernardo Provenzano. Ed è quello che Graviano ha voluto dire, fra le righe, con le sue mezze dichiarazioni in quel processo.
SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Io capisco il Graviano: vuole difendere sé stesso ma perché prende ripetutamente le difese di Aiello, ma perché si preoccupa di Aiello? Eppure se lei lo legge dice che Aiello non c’entra niente, ma perché si prende carico di Aiello? … Dice che Falcone faceva parte di un pezzo dello Stato che tramite Contorno faceva omicidi e parla dell’agenza rossa, che sarebbe stata trafugata da un magistrato e quando io l’ho letto dico: «Ma questa è la riedizione del corvo!», Graviano sta scrivendo sotto dettatura dei servizi, per conto dei servizi, sembra così, insomma.
Quindi da una parte abbiamo Graviano, dall’altra parte abbiamo questa vicenda strana di Avola, poi abbiamo altre cose che si scrivono sotto traccia che non posso dire, c’è qualcosa che si sta muovendo oggi.
È questa la cosa drammatica, che si sta muovendo oggi, la filiera non è finita e questo spiega anche perché quelli che sanno i segreti da Biondino a Graviano ad altri non parlano e adesso scusatemi se lo dico ma con la nuova sentenza che ha aperto la possibilità di uscire dall’ergastolo con la dissociazione dimostrando la cessazione della pericolosità si apre una nuova stagione, bisogna vedere come andrà, è una battaglia tutta politica.
Che accade se il Parlamento non fa in tempo a fare una legge? Che accadrà nelle Commissioni Giustizia? La strage di Via D’Amelio è ancora tra noi. Non è una storia finita, e i tentativi di depistaggio sono estremamente sofisticati e complessi e vengono realizzati anche mettendo in giro delle falsità su cui poi eventualmente ritornerò.
© Riproduzione riservata