C’è un filo che anticipa via D’Amelio e in qualche modo annuncia i primi segni del depistaggio destinato ad occultare per anni ogni verità sulla strage. Quel filo è rappresentato dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, quando chiede e subito ottiene dal CSM il nullaosta per lasciare Palermo e trasferirsi in Cassazione
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
C’è un filo oscuro ma netto che unisce la vicenda umana e il lavoro giudiziario di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un filo che anticipa via D’Amelio e in qualche modo annuncia i primi segni del depistaggio destinato ad occultare per diciassette anni ogni verità sulla strage. Quel filo è rappresentato dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, alla direzione della procura di Palermo dal giugno 1990 all’agosto 1992 quando chiede (e subito ottiene) dal CSM il nullaosta per lasciare Palermo e trasferirsi in Cassazione.
A Giammanco si attribuisce, in quei due anni palermitani, il lento ma determinato e costante esercizio di isolamento professionale, prima nei confronti di Falcone (che a quella condizione di solitudine si sottrarrà accettando nel 1991 la proposta del ministro Martelli di lavorare alla guida dell’ufficio Affari Penali a Roma), poi verso Paolo Borsellino, tenuto per mesi ai margini delle inchieste giudiziarie più importanti sulla Cosa nostra palermitana. Almeno fino a poche ore prima della morte, quando ricevette un’inaspettata ed ancora non decifrabile telefonata da parte di Giammanco (ne parleremo più avanti) che gli comunicava di volergli finalmente affidare le principali inchieste sulla mafia palermitane. Un atto tardivo di resipiscenza: sono le 7.00 del mattino di domenica 19 luglio e a Paolo Borsellino restano solo dieci ore di vita.
Il nuovo capo della Procura
La scelta di indicare Giammanco alla guida della Procura, due anni prima, s’era portata dietro critiche e preoccupazioni, emerse anche nel voto non unanime del plenum del CSM.
Esplicita la preoccupazione manifestata, in occasione di quel voto, da alcuni consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Come ebbe modo di dichiarare l’area vicina a Massimo Brutti, componente laico del consiglio, Giammanco appariva “un giudice troppo chiacchierato, un magistrato troppo schierato, troppo legato ai salotti dei potenti”. Si temeva, in particolare, la manifesta amicizia tra il dottor Giammanco e l’onorevole D’Acquisto, che era punto di forza politico ed elettorale di Salvo Lima a Palermo. Eppure, nonostante ci fosse questo elemento oggettivo di preoccupazione, nella votazione prevalse il dottor Giammanco. Perché? Lo abbiamo chiesto all’onorevole Brutti.
BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Vi era un atteggiamento complessivo come ad assecondare una routine… All’interno della Procura di Palermo vi era un’accettazione più o meno convinta, pur considerando i limiti di questo magistrato… Noi fin dall’inizio ci opponemmo a Giammanco. Vi erano anche nel suo fascicolo personale tracce di queste molteplici attività che lo avevano portato ad avere contatti anche sul piano professionale con il mondo politico siciliano, con i gruppi dirigenti della Democrazia Cristiana, in un momento nel quale le correnti prevalenti della DC siciliana non erano particolarmente sensibili alle necessità di una lotta senza quartiere contro la minaccia mafiosa… Però ci rendemmo conto che sarebbe passato comunque Giammanco.
Giammanco, infatti, passa. Si insedia alla guida della Procura e vi trova Giovanni Falcone come suo aggiunto. Ma le riserve sulle sue frequentazioni si rivelano subito fondate. Il 12 marzo 1992 viene ucciso Salvo Lima: è l’inizio della resa dei conti fra i Corleonesi di Totò Riina e i vecchi protettori politici che non proteggono più. Eppure, per il procuratore Giammanco, Lima è solo un notabile e un amico da frequentare (in vita) e da onorare (in morte). Vorrebbe partecipare ai funerali, glielo impediscono quasi fisicamente, i suoi sostituti, come ha ricordato a questa Commissione il maresciallo Canale, audito in occasione della prima indagine sul depistaggio Borsellino:
CANALE, collaboratore di Borsellino. Quando fu della morte di Lima, Giammanco si stava preparando ad andare ai funerali di Lima, e lui (il dottor Borsellino) lo disse una collega: «sai, Giammanco sta andando da Lima!». Borsellino fece come un pazzo: da Lima? Ma di che stiamo parlando! Lui sta andando ai funerali di Lima!?
Le indagini sul delitto Lima
E ricorda Roberto Scarpinato, a proposito dell’omicidio Lima e delle indagini in Procura:
SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando c’è l’omicidio Lima… io ho uno scontro personale con Giammanco perché voleva iscrivere l’omicidio nel registro degli omicidi normali non in quello degli omicidi di mafia. Ho detto: «ma stai scherzando che iscriviamo così l’omicidio Lima?».
Le indagini sul delitto Lima e l’organizzazione del lavoro all’interno della Procura di Palermo sanciscono una frattura definitiva tra il capo dell’ufficio e molti dei suoi PM. La profondità di quella frattura emergerà plasticamente il 24 giugno 1992, un mese dopo la strage di Capaci, quando la giornalista del Il Sole 24 Ore, Liana Milella, pubblica alcuni estratti dei cosiddetti “diari” di Giovanni Falcone: una serie di annotazioni del magistrato che vanno dal dicembre 1990 fino al 6 febbraio 1991, ossia poco prima che Falcone accettasse l’incarico romano offertogli dal ministro Martelli.
«È per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli. Non si sa mai». Siamo nella seconda settimana di luglio dell'anno scorso e, dal 15 marzo, il giudice Giovanni Falcone si è trasferito a Roma per dirigere l'ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia. Come in tante altre occasioni si discute della sua decisione di lasciare il posto di Procuratore aggiunto a Palermo. «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi? No, meglio Roma. Qui al Ministero c’è tantissimo da fare. E alla mafia, anche da qui, si può dare molto fastidio».
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