È a Pianosa che Scarantino – come da lui stesso dichiarato, da ultimo, il 19 giugno 2019 – avrebbe subito atti di “terrorismo… non solo mentale ma anche fisico” tali da convincerlo a diventare – come dice lui stesso – “il nuovo Buscetta”, dando corpo ed enfasi alle sue menzogne su via D’Amelio.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Le carceri, come abbiamo finora avuto modo di vedere, sono uno dei passaggi cruciali nella costruzione del depistaggio. Lo è in particolar modo quello di Pianosa.
È qui che nel settembre ’93 Scarantino viene trasferito da Busto Arsizio. È qui che Scarantino decide, il 24 giugno 1994, di collaborare con la giustizia. È qui che si svolgono gli ormai noti colloqui investigativi con gli uomini del gruppo “Falcone-Borsellino”.
Ed è a Pianosa che Scarantino (come da lui stesso dichiarato, da ultimo, il 19 giugno 2019) avrebbe subito atti di “terrorismo… non solo mentale ma anche fisico” tali da convincerlo a diventare (come dice lui stesso) “il nuovo Buscetta”, dando corpo ed enfasi alle sue menzogne su via D’Amelio.
A Pianosa i boss di Cosa nostra vengono trasferiti d’urgenza già all’indomani della strage di via D’Amelio. È la prima reazione dello Stato italiano alla violenza del tritolo. Un ricordo quei momenti c’è stato consegnato dall’avvocato Genchi nel corso della nostra precedente inchiesta.
GENCHI, ex funzionario della Polizia di Stato. Io sono entrato dentro, credetemi: terribile, terribile. Io, per altro, avevo letto di Sandro Pertini, della detenzione in quel carcere. Stavano cercando di adattarlo. L’acqua non arrivava: mettevano dei tubi di polietilene per portare l’acqua volante nelle celle.
I detenuti aspettavano tutti legati con le catene, le manette, in fila, fuori, al sole, il 20 luglio… la mattina del 20 luglio perché già alle 10 e mezza, le 11, eravamo là. Mi chiamano: «Dottore, dottore, un detenuto si è sentito male». Cade a terra, quasi svenuto, io lo riconosco subito, era Michele Greco.
Violenza e maltrattamenti in carcere
Un mese dopo, agosto 1992, la situazione si fa ancora più incandescente. I legali dei detenuti cominciano a denunciare episodi di violenza e maltrattamenti all’interno della “Sezione Agrippa”. Questo il racconto che ne fa il giornalista Massimo Basile.
Farà discutere l'esposto che l'avvocato Frino Restivo di Palermo, ex presidente dell'Unione delle camere penali italiane, ha presentato ieri alla procura generale di Firenze. L'avvocato Frino Restivo denuncia violenze all'interno della Sezione Agrippa del carcere di Pianosa dove all' indomani della strage di Palermo sono stati trasferiti boss e imputati di mafia, fra i quali Michele Greco e Pietro Vernengo… Restivo, che sottolinea la sua "assoluta indipendenza" di avvocato che ha difeso mafiosi ma non difende la mafia, sostiene che le misure di massima sicurezza sono legittime, ma che è inaccettabile ogni forma di maltrattamento dei reclusi. «Mi sembrano accuse fuori dal mondo», dichiara il vicedirettore di Pianosa, dottor D'Andria. Dall' isola, dove i detenuti per mafia sono 68 e gli arrivi continui, le notizie sono scarne…
A settembre dello stesso anno, arriva sulla scrivania del Ministro di Grazia e Giustizia, del direttore generale del Dipartimento di Prevenzione e Pena, del provveditore per gli Istituti di Prevenzione e Pena della Toscana e del direttore della casa circondariale di Pianosa una relazione a firma del dottor Rinaldo Merani, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Livorno, che di fatto conferma gli esposti presentati dai difensori dei reclusi:
Nel corso della permanenza in sezione si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate al rispetto della persona ed a princìpi di umanità… Si è altresì avuto notizia dell’uso di manganelli all’interno della sezione, evidentemente non in relazione a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’Ufficio da parte della Direzione: i manganelli sarebbero stati adoperati sia per sollecitare nelle gambe i detenuti negli spostamenti all’interno della sezione – da qui forse la necessità e l’accettazione di correre recandosi all’aria –, sia per effettuare veri e propri pestaggi in celle… Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose.
Non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione.
Si invitano pertanto le Autorità competenti ad approfondire la conoscenza dei fatti e soprattutto a vigilare ed esortare acché episodi del genere non si abbiano più a ripeter e la custodia sia esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla legge.
Il racconto dei vertici di Pianosa
Parole, messe nero su bianco, che non si prestano ad interpretazioni riduttive. Il giudice di sorveglianza parla di metodi “non improntati al rispetto della persona ed ai principi di umanità”. Alla sua relazione si aggiunge, il 30 aprile 1993, un dettagliato dossier di Amnesty International dove vengono puntualmente denunciate le condizioni in cui versano i detenuti del carcere di Pianosa.
Eppure di quella particolare atmosfera oggi non conservano particolari ricordi né il dottor Vittorio Cerri (direttore della struttura dal 7 dicembre 1993 al 7 agosto 1994) né il dottor Vincenzo D’Andria (vice direttore dal 1° giugno 1991 al 17 luglio 1994 e, successivamente, direttore fino al 30 giugno 1998). Ecco cosa ci hanno riferito i due auditi.
CERRI, già direttore del carcere di Pianosa. Io sono arrivato nel 1993 e posso dire di avere trovato una situazione legale, severa ma legale. Di quelle cose cui lei ha accennato rispetto alla denuncia del magistrato di sorveglianza di Livorno ne ho avuto conoscenza così, verbale, sia dal magistrato di sorveglianza che veniva anche quando c’ero io, sia anche dall’allora mio vice direttore e dal mio comandante. Ma posso assicurare che durante la mia direzione di questi problemi non ne ho mai avuti…
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D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Per quanto riguarda il 41 bis tenga conto che io avevo pochi mesi di servizio e della gestione del 41 bis se ne occupava il direttore titolare che, in quel momento se ricordo bene, era il dottore Sparacia e, praticamente, le mie funzioni erano funzioni che riguardavano soprattutto la gestione dell’azienda agricola, quindi non è che io avessi, poi, una competenza specifica…
FAVA, presidente della Commissione. Ma quando lesse le note del giudice di sorveglianza, cosa penso? Che non si era accorto di nulla? Che aveva sottovalutato qualcosa? Che a Pianosa accadevano cose fuori dal vostro controllo? Quale fu il suo pensiero? Perché il rapporto è molto duro, è molto dettagliato…
D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Ripeto, non è che avevo competenza, diciamo, sulla gestione del 41 bis, quindi, certamente, quello che accadde nei primi mesi era una situazione di grande confusione, praticamente la sezione fu aperta da un giorno all’altro, quindi, c’erano proprio delle enormi difficoltà di carattere logistico, però, non saprei…
FAVA, presidente della Commissione. Ci furono conseguenze dopo questo rapporto? Cambiò qualcosa? Modificaste qualcosa?
D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Io ero il vice direttore con pochi mesi di servizio, ero tornato da poco dal corso di formazione.
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