Il quartiere di Brancaccio era una di quelle zone della città di Palermo a più alta densità delinquenziale. E la cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi Anni Novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a don Pino Puglisi, parroco che aveva sfidato i boss del quartiere Brancaccio a Palermo offrendo ai ragazzi un’alternativa ai fratelli Graviano, ucciso nel 1993.
Il quartiere di Brancaccio, all’epoca del fatti per cui è processo, era una di quelle zone della città di Palermo a più alta densità delinquenziale, “in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose di consolidate origini e tradizioni ed in cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e la violenza”.
E la cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi anni novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia.
Tutti i collaboranti che hanno offerto il loro contributo probatorio nell’ambito di questo processo, infatti, hanno concordemente affermato che in quel tempo dominavano nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso.
Tra i vari mafiosi che, ad un certo punto del loro percorso criminale, hanno scelto di collaborare con la giustizia, Di Filippo Emanuele ha spiegato che la famiglia di Brancaccio era «stata data in mano ai fratelli Graviano…..Filippo, Giuseppe e Benedetto Graviano».
Ha aggiunto che nel quartiere di Brancaccio comandavano i fratelli Graviano: qualsiasi cosa succedesse – estorsioni, rapine, omicidi – «loro ne erano a conoscenza», se non addirittura ne erano gli autori o i mandanti. Del resto, ha aggiunto, sintomaticamente, queste erano le regole dell’organizzazione, «….nel senso che tutto quello che succedeva, tutto quello che veniva comandato, noi dovevamo saperlo, e questa è una storia, una situazione che percorre nel tempo e non può cambiare per cui, andando avanti nel tempo ed essendo che i Graviano dopo presero il possesso di Brancaccio, la storia si tramanda, e anche loro comandano, eseguono e sono responsabili di quello che succede nella zona».
Filippo e Giuseppe Graviano sono la “stessa cosa”
Il “comando” dei Graviano non si era neppure sminuito con la loro cattura, tant’è «...che molti detenuti, come Sacco, come Giacalone Luigi, cercavano di far pervenire messaggi ai Graviano per avere delle risposte sul come comportarsi o durante i processi dibattimentali o durante la detenzione». Il collaborante Drago Giovanni ha riferito che Giuseppe Graviano era colui che dirigeva la famiglia mafiosa di Brancaccio, e, dopo l’arresto di Lucchese Giuseppe, era divenuto reggente del mandamento di Ciaculli, «… Graviano Filippo (era) la mente, Giuseppe a suo pari, mentre Benedetto il braccio di forza». Calvaruso Antonio, altro collaborante di giustizia, ha ribadito che coloro che reggevano le sorti del quartiere di Brancaccio erano Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano: tutti egualmente influenti e capi, «solo che il Giuseppe Graviano era il primo in assoluto; poi veniva Filippo e, in ultimo, Benedetto».
[...] Anche Brusca Giovanni, già esponente di massimo livello dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, divenuto successivamente collaboratore di giustizia, riferendosi al mandamento di Brancaccio, ha ribadito: «...il punto di riferimento è Giuseppe Graviano, come capo mandamento. Però, bene o male, tutti in famiglia, nel senso di “Cosa Nostra” collaboravano». Ha aggiunto: «il capo mandamento è Giuseppe Graviano, poi lo affiancava, perché si può dire che erano……decidevano quasi tutto insieme, Filippo». Ha concluso: «Parlando con Filippo era come parlare con Giuseppe; cioè, come si suol dire, erano la stessa persona». E lo stesso Grigoli Salvatore, nel ripercorrere il suo passato di criminale, ha ricordato: «…Era già all’epoca Giuseppe Graviano il capo mandamento di Brancaccio…Filippo era il fratello… Erano tutti e due in sostanza a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai picciotti», individuati sicuramente nelle persone di Giuseppe e Filippo Graviano.
E’ appena il caso di rilevare come le varie dichiarazioni rese nel tempo dai collaboratori di giustizia sulle leadership della famiglia mafiosa di Brancaccio, oltre che concordanti e convergenti, sul punto, siano tutte caratterizzate da un dato comune: il riferimento costante e preciso ai fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, quali unici reggenti di fatto, in quel tempo, della famiglia stessa, ed al loro dominio assoluto ed incontrastato nella zona.
E questa asserzione, sui due fratelli Graviano e sulla loro comune appartenenza in modo organico ed altamente qualificato a “Cosa Nostra”, trova un ulteriore preciso e puntuale riscontro documentale nelle sentenze emesse, nell’ambito dei così detti maxi-processi storici, dalla Corte di Assise di Palermo, divenute irrevocabili e regolarmente acquisite al processo in esame, con le quali i predetti sono stati entrambi giudicati e condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti appunto allo scacchiere mafioso di Brancaccio. E che in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi dominassero nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso, è stato possibile apprenderlo, oltre che dalle plurime convergenti propalazioni dei collaboranti, anche attraverso le dichiarazioni dei numerosi investigatori che, successivamente all’omicidio del parroco di Brancaccio, hanno svolto un incessante lavoro di penetrazione in quel quartiere.
Qui basta ricordare solo alcuni di detti investigatori.
Il maggiore Bossone Davide, comandante del Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo, che aveva svolto indagini sulla famiglia mafiosa di Brancaccio a partire dall’anno 1992 nell’ambito dell’operazione denominata “Pipistrello”, ha riferito che Dragna Giuseppe, il quale ha pagato con la vita le sue propalazioni, nel corso della sua collaborazione fiduciaria con le Forze dell’Ordine, aveva rivelato che al vertice della famiglia di Brancaccio erano i Graviano, in particolare Giuseppe e Filippo.
I due erano stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994 presso il ristorante “Il Cacciatore” al termine di un reiterato pedinamento di diversi soggetti. La cattura di questi due latitanti era stata considerata un passo strategico nel contrasto al fenomeno criminale mafioso in quell’area.L’Ufficiale ha aggiunto, tra l’altro, che sul conto dei Graviano era emerso che gli stessi reimpiegavano i loro capitali illeciti nel settore dell’edilizia avvalendosi di diversi soggetti come prestanome.
Il capitano Minicucci Marco ha dichiarato che, nella sua qualità di comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo, aveva coordinato le indagini che avevano portato alla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano a Milano il 27 gennaio 1994 nel ristorante “Il Cacciatore”. Tali indagini erano state maggiormente intensificate all’indomani dell’omicidio di padre Puglisi, essendosi i sospetti appuntati proprio sui detti fratelli, allora entrambi latitanti, i quali controllavano a quel tempo il territorio nel quale era avvenuto il delitto.
Le susseguenti indagini avevano confermato che i due fratelli erano stati insieme anche durante la latitanza.
Il capitano Brancadoro Andrea, che dal 1992 al 1996 aveva prestato servizio presso il Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo ed aveva effettuato attività investigativa sul quartiere di Brancaccio e sulla famiglia mafiosa che ne controllava il territorio, ha dichiarato che dopo l’omicidio di padre Puglisi l’attività investigativa era stata incentrata sulla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi da tempo latitanti, i quali erano i maggiori indiziati del delitto.
Ha precisato che, dal contesto delle lettere sequestrate dalla Direzione Investigativa Antimafia di Palermo nell’abitazione di Mangano Antonino nonché dagli altri elementi raccolti, era risultato chiaro che coloro i quali a quell’epoca comandavano nella zona di Brancaccio erano proprio Giuseppe e Filippo Graviano.
Ha aggiunto di non aver fatto indagini dirette sull’omicidio di padre Puglisi ma che la cattura di questi due latitanti era considerata un “passo strategico” nel contrasto al fenomeno criminale in quell’area.
Alla strega delle dichiarazioni, concordanti e pienamente attendibili, rese dai vari collaboratori di giustizia, pienamente riscontrate dagli accertamenti investigativi degli ufficiali di polizia giudiziaria, adunque, risulta provato, in maniera certa ed inconfutabile, che i maggiorenti del mandamento mafioso di Brancaccio, all’epoca dell’uccisione del coraggioso parroco della chiesa di San Gaetano, erano entrambi i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, odierni imputati.
Il fidato Nino Mangano
Sulla base di tutte le numerose univoche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e degli inquirenti, risulta acclarato, quindi, che la cosca mafiosa di Brancaccio era, di fatto, nei primi anni novanta, saldamente ed indistintamente, nelle mani dei due fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, con un ruolo paritario, senza che l’uno primeggiasse o fosse meno capace dell’altro ad attuare il dominio territoriale nel quartiere, dove indiscusso e inviolato, dilagava il loro potere, anche se formalmente si parlava di Giuseppe come capo del mandamento: i due congiunti, infatti, venivano indistintamente considerati come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e dell’apparato militare in quello scacchiere mafioso.
Come risulta, in maniera incontestabile, da tutti gli elementi di prova versati in atti, poi, i due più volte menzionati fratelli, anche durante la loro detenzione, non hanno per nulla reciso i collegamenti con l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, con quella articolazione locale del famigerato quartiere di Brancaccio, facente capo, dopo il loro arresto, a Mangano Antonino prima ed a Leoluca Bagarella dopo: il Mangano, infatti, è stato indicato unanimemente come il portavoce dei fratelli Graviano e, dopo la loro cattura, anche il loro successore per diretta investitura del Bagarella alla guida di quel territorio, senza che peraltro venissero recisi i collegamenti con i detti fratelli detenuti, i quali continuavano a trasmettere ordini dal carcere e ad impartire precise disposizioni relative alla gestione familiare delle azioni criminose.
Ed invero, a seguito della cattura di Bagarella Leoluca, nel corso di una perquisizione effettuata presso l’abitazione del Mangano – il quale gestiva all’epoca un’agenzia di assicurazioni nel Corso dei Mille e che già allora era stato attenzionato per i suoi probabili collegamenti, poi risultati certi, col Bagarella – è stata rinvenuta una copiosa corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e Graviano Giuseppe, nella quale si parla di attività illecite dell’organizzazione criminale del mandamento di Brancaccio.
Nella stessa, mittente e destinatario sono indicati con nomi di fantasia: Graviano Giuseppe si firma con lo pseudonimo di “Madre Natura”, Mangano con altro.
Ebbene, tale corrispondenza contiene precise indicazioni relative ad acquisto di armi, ad attività estorsive in danno di imprenditori compiute nell’interesse dell’organizzazione, a nomi o pseudonimi di soggetti inseriti o vicini all’organizzazione medesima, a lettere scambiate con i Graviano contenenti riferimenti a personaggi facenti parte di tale associazione.
Costituisce, pertanto, un puntuale ed incontrovertibile riscontro documentale alle numerose dichiarazioni dei collaboranti, secondo cui la cosca di Brancaccio era, in epoca coeva all’uccisione di padre Puglisi, ed è tutt’ora, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, odierni imputati, unanimemente indicati quali incontrastati capi “ex equo” di quell’assetto criminale.
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