La difesa dei Graviano ha evidenziato che gli stessi fratelli, come già riferito da un cameriere del ristorante “Il Cacciatore” di Milano al capitano dei Carabinieri Brancadoro, «facevano il segno della croce mettendosi a tavola». Dunque, secondo la difesa, si tratta di “un significativo genuino profilo di religiosità”, questo, “oggetto di ripetuta attenzione in circostanze sicuramente non sospette”...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a don Pino Puglisi, parroco che aveva sfidato i boss del quartiere Brancaccio a Palermo offrendo ai ragazzi un’alternativa ai fratelli Graviano, ucciso nel 1993.
La Difesa ha sostenuto nei motivi di gravame che i fratelli Graviano non avrebbero potuto ordinare un omicidio così eclatante, in quanto per loro sarebbe stato del tutto controproducente, avendo gli stessi tutto l’interesse al mantenimento dello “status quo”.
Si assume, al riguardo, che l’uccisione di “un sacerdote che godeva di una certa considerazione” non poteva considerarsi una “eliminazione di routine” ma doveva “ritenersi un omicidio eccellente”, con la conseguente previsione che avrebbe concentrato su quel territorio l’attenzione delle forze investigative: “eliminare padre Puglisi significava soltanto sovraesporre il territorio, quel territorio ed in particolare chi lo reggeva”.
Non a caso, aggiunge sempre la Difesa, la cattura dei fratelli Graviano “prende le mosse proprio dalla concentrazione di forze in quel territorio e dalla attenzione che viene loro rivolta come possibili mandanti”.
Detto argomento difensivo, a parere della Corte, si appalesa del tutto incongruo e comunque tale da non scalfire neppure minimamente quello che è il pregnante quadro accusatorio nei confronti degli odierni appellanti.
Ed invero, anche le terribili stragi del 1992, in cui tragicamente hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino e le persone a loro vicine o che con loro si trovavano, era prevedibile che avrebbero provocato gravi reazioni sul piano investigativo e giudiziario contro l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, così come in effetti è avvenuto, e nonostante ciò gli autori efferati delle stesse non hanno desistito per nulla dal loro vile proposito criminoso.
Non bisogna dimenticare, poi, che il grave episodio criminoso che ci occupa non può essere esaminato prescindendo dal considerare il contesto mafioso in cui è maturato ed è stato portato a compimento e l’ondata di violenza scatenata dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra” a livello nazionale in cui è inserito.
Nell’anno 1992, infatti, si era assistito ad una intensa stagione di delitti, culminata con le ricordate stragi Falcone e Borsellino, nonché con altri omicidi eccellenti, quali quelli dell’onorevole Salvo Lima e del finanziere Ignazio Salvo.
E l’ondata di violenza non era destinata certo ad esaurirsi con detti delitti, poiché era stata scatenata, al contempo, una campagna terroristica da parte dei vertici di alcuni gruppi criminali mafiosi sfociata nei noti attentati del 1993 presso le città di Firenze, Roma e Milano, nella prospettiva di realizzare un clima di destabilizzazione mediante stragi e atti di terrorismo, finalizzati ad instaurare nuove relazioni esterne con settori del mondo politico, al fine di ristabilire la forza e l’impunità dell’organizzazione mafiosa.
L’attacco alla Chiesa
Sempre nell’anno 1993 veniva sferrato un vile attacco ai pentiti con il gesto terribile ed eclatante del rapimento del giovane figlio del collaborante Di Matteo Mario Santo, successivamente barbaramente strangolato e disciolto nell’acido, mentre l’aggressione alla Chiesa, come Istituzione, veniva espressa con l’uccisione di Don Pino Puglisi, prete coraggioso che si batteva per gli emarginati fra i quali la mafia arruola le sue reclute, un prete il cui impegno non si era limitato alla testimonianza della fede ma si era esteso all’attuazione di progetti rivolti ad aiutare i ceti più umili, nel tentativo di avviare nel tessuto sociale sfiduciato del quartiere di Brancaccio un processo reale di rigenerazione collettiva e di riscatto dal clima di intimidazione e di violenza mafiosa.
Ebbene, la verifica giudiziale delle prove raccolte ed acquisite agli atti del processo, utilizzate per la ricostruzione della efferata vicenda omicidiaria in esame e per l’affermazione della responsabilità degli scellerati autori della stessa, consente di affermare, con certezza, che i fratelli Graviano ebbero a condividere in pieno la così detta “strategia stragista continentale” voluta da Totò Riina e da loro espressa attraverso la distruzione di edifici sacri, di monumenti e di bellezze artistiche e culminata con l’uccisione dell’esponente di punta del clero siciliano.
La Difesa, nei motivi a sostegno del proposto appello, ha dedotto, tra l’altro, che i giudici di prime cure avevano del tutto ignorato un dato comportamentale dei fratelli Graviano, di particolare pregnanza, e cioè che gli stessi, come già riferito da un cameriere del ristorante “Il Cacciatore” di Milano al Capitano dei Carabinieri Brancadoro, “facevano il segno della croce mettendosi a tavola”.
Dunque, secondo la difesa, “un significativo genuino profilo di religiosità”, questo, “oggetto di ripetuta attenzione in circostanze sicuramente non sospette”. “Significativo”, dal momento che si tratterebbe di “manifestazioni di cristianità assolutamente estranee alla esperienza della maggior parte dei praticanti, a maggior ragione ove si consideri che tali manifestazioni di fede sarebbero intervenute in locali pubblici, in presenza di ben altre attenzioni, sollecitazioni e, perché no, di quei ricorrenti condizionamenti che fanno capo al così detto rispetto umano”. “Una così manifesta, spontanea sensibilità”, sempre secondo quanto sostenuto dalla Difesa, “non appare in alcun modo conciliabile con la truce aggressione di un messaggero di Cristo”.
La “religiosità” dei Graviano
Ebbene, a parere della Corte, l’asserito profilo di religiosità, pubblicamente esternato dai fratelli Graviano ed oggetto di attenzione da parte di taluni soggetti, non può considerarsi una spontanea e genuina manifestazione di cristianità.
Ed invero, anche a prescindere dal fondato sospetto che un tale comportamento possa essere stato preordinato per “future significazioni defensionali”, e, quindi, essere falso e strumentale, è inverosimile immaginare che lo stesso, in quanto posto in essere da due soggetti mafiosi come i fratelli Graviano, appartenenti ad una temibile famigerata organizzazione criminale, già condannati per innumerevoli gravissimi delitti di mafia, sia manifestazione spontanea e sincera di fede cristiana.
E’ difficile credere che due persone che hanno ammazzato o comandato di ammazzare per conquistare potere e denaro siano talmente presi dal rispetto umano e così carichi di senso cristiano da rivolgersi anche in pubblico e sinceramente a Dio come fonte di verità per ringraziarlo e lasciarsi guidare da Lui.
Il vero si è che bisogna riconoscere che qualcosa di ambiguo c’è in questa presunta religiosità dei mafiosi. E l’ambiguità diventa contraddizione ove si esaminano attentamente alcune manifestazioni religiose dei mafiosi stessi. Bisogna ammettere, allora, che l’Essere Supremo in cui i veri cristiani credono non sia lo stesso di quello in cui crede un mafioso: se le parole e certi atteggiamenti esteriori sono simili, infatti, diversi sono i contenuti della fede e le scelte esistenziali.
Si è molto discusso ultimamente sulla così detta religiosità dei mafiosi, specie a seguito della cattura di noti esponenti di spicco dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”. Che molti di questi ultimi abbiano una religiosità è indubbio, perché una religiosità mafiosa si coglie da tanti segnali: bisogna chiedersi, però, che tipo di religiosità sia e che tipo di rapporto abbia con quella cristiana.
Or bene, quella dei mafiosi non è e non può essere una religiosità cristiana, sibbene una religiosità senza Dio. E’ una religiosità senza Vangelo, perché il Vangelo di Gesù è quello delle beatificazioni, è il Vangelo che proclama beati i poveri, i non violenti, i costruttori di pace, i perseguitati, coloro che cercano la giustizia e sono capaci di misericordia coloro che sono pronti a sacrificarsi per difendere la dignità degli uomini, come il buon povero Padre Puglisi, il cui martirio è il prezzo della fedeltà a Cristo in ogni tempo.
Secondo il Vangelo non si uccide, tanto meno un “messaggero” di Cristo: Gesù ha fatto del bene a tutti ed è morto ammazzato sulla croce come supremo atto di amore verso l’umanità intera.
Che cosa c’è, allora, della fede cristiana in questa asserita religiosità dei mafiosi? Nulla!
Se guardiamo alle innumerevoli e sanguinarie azioni delittuose dei mafiosi, infatti, nella loro religiosità di cristianesimo non c’è proprio nulla. Un vero cristiano, quando sbaglia sa di commettere peccato e chiede perdono a Dio. Non pare che in questa religiosità mafiosa ci sia il senso del peccato e quindi il bisogno di conversione. Solo in rarissimi casi di vero pentitismo, è riemerso nell’ex mafioso un senso più autentico di religiosità, forse legato al ritorno della religiosità di quando era fanciullo, ed è affiorata l’anima cristiana unitamente ai valori etici del giusto e dell’onesto.
In realtà, i simboli e certi atteggiamenti esteriori dei mafiosi sono mutuati dalla religione cristiana: vi è, tuttavia, un profondo abisso tra l’invocazione religiosa che fanno questi soggetti, consolatoria ed autogiustificante, e la coerenza evangelica della loro esistenza e del loro quotidiano agire.
Il comportamento individuale e sociale dei mafiosi non ha nulla a che fare con la morale evangelica, perché non è conseguenza di un rapporto con Dio, e, quindi, genuino profilo di cristianità siamo, invece, come è stato acutamente osservato, all’interno di una “visione magica” che tende ad usare la religione per la realizzazione dei propri progetti illeciti, piuttosto che per mettersi alla sequela di Gesù Cristo, che tutto vede e tutto ascolta, e lasciarsi guidare da Lui. Si tratta, quindi, di una religiosità alquanto ambigua, certamente distorta, comunque vuota di contenuti; di una “religiosità senza Dio”, di un “ateismo religioso”, come pure è stato detto. Come tale, del tutto estraneo al vero cristianesimo e, conseguentemente, ben compatibile “con la truce aggressione in danno di un messaggero di Cristo”.
In quest’ottica, l’assunto difensivo appare del tutto privo di pregio: non rimane che la speranza e l’augurio che questi soggetti abbandonino le opere peccaminose e nefaste dell’organizzazione criminale, che tanti lutti e tanto terrore hanno seminato e che hanno distrutto le loro stesse famiglie oltre che notevolmente turbato la serena convivenza civile e sociale nella nostra terra di Sicilia.
Che si ricordino di Padre Pino Puglisi, non solo per la sua morte crudele per mano della mafia ma soprattutto per la profondità e la ricchezza del cammino interiore di fede che a quella morte lo ha condotto.
Che guardino a questo martire per la giustizia, per la carità, per la fedeltà al suo ministero, come vero modello di cristiano, per lasciarsi contestare e contagiare dalla sua vita e dalla sua morte e per riporre fedeltà al Vangelo e ai Poveri senza compromessi ed ambiguità.
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