Il sacerdote agiva in un quartiere degradato nella periferia della città, Brancaccio. Si era dedicato al recupero dei bambini non scolarizzati; aveva creato il centro di accoglienza “Padre Nostro”, per dare assistenza a minori a rischio, anziani e disadattati, provvedendo anche alla raccolta dei fondi per l’acquisto dei locali che ospitavano il centro
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a don Pino Puglisi, parroco che aveva sfidato i boss del quartiere Brancaccio a Palermo offrendo ai ragazzi un’alternativa ai fratelli Graviano, ucciso nel 1993.
Attraverso le testimonianze di Porcaro Gregorio, Guida Giuseppe, Palazzolo Salvatore, Carini Giuseppe e Renna Rosario, poi, si ricostruiva il contesto ambientale in cui si era mosso Don Pino Puglisi, il suo operato, il suo impegno sociale e pastorale, le gravi minacce e le intimidazioni dallo stesso subite ed ancora quelle subite da coloro che nel suo operato si riconoscevano e trovavano una alternativa alla triste e violenta realtà del quartiere Brancaccio.
Si è accertato, così, che il sacerdote, il quale operava in un quartiere degradato sito nella periferia della città, quale era appunto quello di Brancaccio all’epoca dei fatti, si era dedicato al recupero dei bambini non scolarizzati, istituendo corsi di scuola elementare e media; aveva creato il centro di accoglienza “Padre Nostro”, luogo questo vicino alla parrocchia San Gaetano, per dare assistenza ai minori a rischio, agli anziani e ai disadattati, provvedendo anche alla raccolta dei fondi per l’acquisto dei locali che ospitavano detto centro.
Si è appreso, anche, che il sacerdote fungeva da direttore spirituale e animatore del “Comitato Intercondominiale” di via Azolino Hazon, istituito e composto da volontari che si erano associati allo scopo di migliorare la qualità della vita del quartiere, attraverso diverse iniziative.
Si è saputo, inoltre, che i rappresentanti di tale comitato – Romano Mario, Guida Giuseppe e Martinez Giuseppe – nella notte del 29 giugno 1993, erano stati destinatari di attentati incendiari, a contenuto intimidatorio, da essi regolarmente denunciati agli organi competenti e negativamente commentati da padre Puglisi nella omelia della messa domenicale.
Con l’audizione delle persone predette, veniva dimostrato altresì l’isolamento politico e sociale in cui il povero prete ha dovuto assolvere il suo ministero sacerdotale fino alla morte: la sua attività sociale, infatti, era osteggiata anche dalle forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere.
I segnali intimidatori, poi, erano stati estesi direttamente a Don Giuseppe Puglisi, anche se da quest’ultimo non esplicitamente denunciati agli organi di polizia o alla magistratura.
Anche il teste Balistreri Serafino riferiva, nel corso del suo esame dibattimentale, di un attentato incendiario, avvenuto nello stesso periodo, ad un proprio mezzo meccanico, parcheggiato in un'area antistante l’edificio ecclesiastico ed impegnato nei lavori per la ristrutturazione del tetto della parrocchia di San Gaetano, a lui dati in appalto.
Quest’ultimo atto delittuoso non venne denunciato dalla persona offesa, ma fu, invece, riferito e stigmatizzato, durante l’omelia della messa domenicale, proprio da Don Pino Puglisi, il quale pubblicamente ha deprecato non solo l’episodio ma anche il modo illecito con cui venivano gestiti gli appalti.
Ciò aveva destato evidentemente enorme scalpore nel quartiere, da sempre soggiogato al potere mafioso ed assoggettato ad un pesante clima di omertà.
Nonostante le minacce, il sacerdote non si arrende
Lipari Antonino, un giovane che operava in parrocchia, poi, raccontava che per due volte, nel luglio del 1993, era stato avvicinato ed intimorito da sconosciuti che lo avevano minacciato di bastonarlo e gli avevano intimato di non frequentare più la chiesa. Aggiungeva che Padre Puglisi lo aveva esortato a non aver paura e gli aveva fatto presente che anch’egli aveva ricevuto minacce a mezzo posta o per telefono, cui non aveva dato peso. Precisava, ancora, che, dopo l’uccisione del sacerdote, aveva ricevuto telefonate anonime di carattere intimidatorio ed era stato aggredito con un coltello da due individui che gli avevano detto che avrebbe fatto la stessa fine di don Pino Puglisi, unitamente al vice parroco della stessa chiesa di San Gaetano, padre Porcaro. Concludeva affermando che le minacce erano cessate dopo che lui si era allontanato dalla parrocchia di Brancaccio.
Quanti erano stati vicini ed avevano collaborato con l’ucciso nella sua opera di recupero sociale e di evangelizzazione, quindi, delineavano il movente dell’omicidio e nel contempo evidenziavano che gli episodi di intimidazione non erano cessati alla morte del povero Don Pino Puglisi, ma addirittura si erano estesi anche successivamente, prendendo di mira coloro i quali, per dovere civico oltre che per rispetto alla memoria del coraggioso sacerdote, avevano continuato nell’attività di impegno pastorale e sociale portato avanti dal quel martire della mafia.
Ancora. Attraverso l’audizione degli imputati di reato connesso Drago Giovanni, Cancemi Salvatore, Contorno Salvatore, Marchese Giuseppe, Mutolo Gaspare, La Barbera Gioacchino, Di Matteo Mario Santo, Pennino Gioacchino, Cannella Tullio, Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale, Romeo Pietro, Carra Pietro, Calvaruso Antonino e Brusca Giovanni, tutti collaboratori di giustizia, il contenuto delle cui dichiarazioni sarà esposto dettagliatamente in altra parte della presente sentenza, è risultato acclarato che i mandanti dell’omicidio del sacerdote sono stati indicati unanimemente negli odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano, i quali componevano all’epoca i ranghi dell’associazione per delinquere denominata “Cosa Nostra” con ruoli di promozione, direzione ed organizzazione.
Ed è rimasto provato, altresì, dalle dichiarazioni rese nel tempo dai numerosi citati collaboratori di giustizia, oltre che da altre incontrovertibili e certe acquisizioni di natura oggettiva (atti e documenti usciti dal carcere), che i due congiunti sopra menzionati non solo facevano parte in epoca coeva all’uccisione del povero prete ma fanno parte tuttora, con i medesimi ruoli di preminenza, della temibile associazione criminale mafiosa, nonostante il ristretto regime detentivo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario a cui sono pure sottoposti.
Brancaccio, i mafiosi alleati dei “corleonesi”
Con l’audizione dei collaboratori di giustizia Di Filippo Pasquale e Romeo Pietro, poi, è stata acclarata la responsabilità di Grigoli Salvatore quale esecutore materiale – in concorso con Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo, separatamente giudicati e ormai tutti condannati con sentenza definitiva - dell’uccisione di Padre Puglisi e l’organica appartenenza dello stesso Grigoli al “gruppo di fuoco” agli ordini della famiglia mafiosa di Brancaccio.
Lo stesso Grigoli, del resto, come si dirà da qui a poco, non appena tratto in arresto in data 19 giugno 1997, immediatamente cominciava a collaborare con la giustizia, fornendo la chiave di lettura del crimine mediante indicazione di causale, mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio di padre Puglisi, primo fra tutti egli stesso.
Con l’esame degli ufficiali di polizia giudiziaria La Barbera Salvatore, Messina Francesco, Pellizzari Maria Luisa, Giuttari Michele, Alaimo Mario, Manganelli Antonio, Grassi Andrea, Pomi Domenico, Minicucci Marco, Bossone Davide, Brancadoro Andrea, i quali, dopo l’uccisione di Don Puglisi , si sono tutti occupati attivamente di svolgere indagini, sia sul contesto di Brancaccio che in campo nazionale sulla attività criminosa della famiglia di Brancaccio, sono stati ricostruiti due interminabili anni di attività investigativa sull’omicidio del povero prete, dalle nebulose investigazioni dei primi giorni fino alle certe acquisizioni della chiusura delle indagini preliminari, ed inoltre è stata evidenziata la composizione della famiglia mafiosa di Brancaccio, i suoi rapporti con i Corleonesi di Bagarella Leoluca, il suo coinvolgimento - e questo è un punto molto importante per intendere meglio i fatti – nella strategia stragista di “Cosa Nostra” con l’attacco alle Istituzioni dello Stato e della Chiesa.
Infine l’esistenza, la struttura e le regole comportamentali dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra” sono state dimostrate mediante acquisizione di copia delle sentenze, ormai passate in autorità di cosa giudicata, emesse nell’ambito dei così detti “maxi processi”, celebratisi nel recente passato dalle Corte di Assise di Palermo.
L’appartenenza a “Cosa Nostra” dei fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo veniva riscontrata dall’acquisizione delle sentenze dalle quali risulta che i predetti due congiunti sono stati entrambi condannati per il reato di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti alla famiglia di Brancaccio ed al mandamento di Ciaculli.
Non solo, ma attraverso la prova offerta da testimoni e da collaboratori di giustizia, ed anche con atti e documenti usciti dal carcere, veniva dimostrato altresì che i predetti imputati, non solo durante lo stato di latitanza, ma anche dalla detenzione carceraria, sottoposta al vincolo ristrettissimo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, erano stati capaci di impartire ordini e di determinare scelte criminali.
Mediante l’acquisizione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo nei confronti di Castiglione Gaetano e Catanzaro Antonino, poi, è rimasto acclarato che questi ultimi soggetti hanno pesantemente minacciato, al fine di non farli ulteriormente parlare e testimoniare nel processo in esame, soggetti che erano rimasti vicini al buon sacerdote ucciso.
Inoltre, con l’acquisizione della sentenza di condanna, emessa nei confronti di Mangano Salvatore con le forme del rito abbreviato e non appellabile in quanto la pena inflitta non deve essere scontata, è rimasto provato che quel medico di Brancaccio era stato incaricato dalla famiglia mafiosa di quella borgata di seguire i movimenti di padre Giuseppe Puglisi poco prima di essere ucciso.
Oltre a questo, con la produzione di numerosa documentazione amministrativa, venivano dimostrati anche i pregressi rapporti intercorsi tra il Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, la Prefettura, il Comune di Palermo e il Consiglio di quartiere di Brancaccio in ordine alla assegnazione di alcuni locali da destinare a struttura scolastica.
Frattanto, in data 19 giugno del 1997, mentre era in corso l’istruzione dibattimentale avanti i primi giudici, veniva tratto in arresto Grigoli Salvatore, il quale immediatamente cominciava a collaborare con la giustizia.
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