Le intercettazioni non lasciano spazio a dubbi: «Facciamo venire le scimmie e domani cerchiamo di finire». In un altro stralcio, padrone e caporale trovano una pratica soluzione per dissetare i lavoratori che chiedevano acqua da bere: «Siccome ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua, gliele riempiamo nel canale. Se ci sono un paio di bottiglie vuote. Quelle che trovi quando togli i cespugli»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.
«I ghetti hanno un tratto curioso: sono prospicienti ai grandi distretti agricoli golosi di manodopera, ciclo delle colture oblige! Qui, gli sfruttatori e i caporali spremono i lavoratori immigrati, soprattutto africani, come limoni, fino allo sfinimento». Ad affermarlo è Jean Renee Bilongo, referente dell'Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil e tra i maggiori esperti di sfruttamento del lavoro in agricoltura. Anche lui con un passato da bracciante sfruttato e ribelle nelle campagne di Castel Volturno e Villa Literno, come Jerry Masslo prima di lui, ha deciso di non piegare la testa dinnanzi ad un Paese che sul lavoro sfruttato sviluppa parte della sua ricchezza e molte delle sue ipocrisie. Bilongo lo scrive a chiare lettere ricordando quanto accaduto il 6 novembre del 2019 nella Piana di Gioia Tauro. Nonostante infatti la pioggia, il fango e il freddo, in un aranceto di Rosarno una squadra di lavoratori subsahariani raccoglieva gli agrumi alle dipendenze di padroni e caporali.
«Provengono dalla vicina baraccopoli di San Ferdinando» dichiara ancora Bilongo, dove «nel pomeriggio, il 22enne ivoriano Ousmane Keita è rinvenuto inerme dai compagni. La scena è orribile. Keita ha le cesoie con le quali lavorava conficcate in gola. Morto sul colpo. Non si evidenziano tracce di violenza. Gli inquirenti scartano la pista di una colluttazione. Keita era caduto da una pianta sulla quale si era arrampicato». Come chiamare questa morte? Un incidente sul lavoro? Perché sia tale deve esserci il lavoro, e dunque un contratto e la manifesta inviolabile libertà che è propria di ogni uomo e donna, anche quando lavora, braccianti africani residenti a San Ferdinando compresi. Ma non è questo il caso. Keita è deceduto nei campi agricoli di questo Paese per colpa di un sistema di produzione che integra linearmente sfruttamento, caporalato, razzismo, indifferenza, interessi milionari, potere politico e criminale.
Un sistema che piega la democrazia
«Diciamolo – dichiara Bilongo - l’imprenditoria agricola non è fatta solo di farabutti. Esiste un diffuso corpo sano, rispettoso del lavoro. Proprio per questo motivo la malapianta va estirpata». Una tesi difficile da comprendere soprattutto da quella parte di imprenditoria agricola seria che esiste ma che continua a non esporsi come dovrebbe e potrebbe. Un sistema imprenditoriale onesto ma che non partecipa ai processi di riforma del sistema agricolo nazionale.
Un esempio? In provincia di Latina, secondo l’Inps, a fronte di circa 7mila aziende agricole, solo 117 si sono iscritte alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità. E le loro categorie di rappresentanza? Parlano, scrivono di caporalato e agromafie, ma non si costituiscono parte civile nei relativi processi contro il caporalato e lo sfruttamento. Luciano Silvestri, responsabile del dipartimento legalità della Cgil non ha dubbi: «Agromafie e caporalato non sono quasi mai due “corpi” separati. Anzi convivono e sono complementari l’uno con l’altro. A dimostrarlo sono la concretezza delle innumerevoli inchieste che attraversano tutto il territorio nazionale. Ormai la Cgil ha preso coscienza che alla denuncia si deve dare continuità chiedendo di partecipare al processo costituendosi Parte Civile. Nelle numerose circostanze dove questo avviene ci è consentito di conoscere i fatti, di tutelare i lavoratori e di contribuire alla ricerca della verità. Purtroppo riscontriamo una sistematica latitanza delle Associazioni di Impresa nei processi di mafia. Anche quando sono le imprese a denunciare alla magistratura di aver subito aggressioni mafiose, le loro Associazioni non si costituiscono Parte Civile. Così non si aiuta certo il sostegno a quelle imprese sane sulle quali è obbligatorio puntare per una ripresa economica che abbia i connotati di legalità».
Dal Sud a Nord Italia
Un altro esempio può aiutare a capire. Siamo al 10 giugno 2020 e le Fiamme Gialle di Cosenza, dopo oltre 3 anni di indagine, eseguono oltre 50 misure cautelari, sequestrate aziende agricole e molti beni. Il sistema criminale agiva tra la Calabria e la Basilicata ed avevano alle loro dipendenze più di 200 lavoratori. Le modalità di reclutamento e impiego non sono solo illegali ma anche degradanti e razziste. Le intercettazioni non lasciano spazio a dubbi: «Dove sono le scimmie?» chiede un imprenditore al suo sodale. «Facciamo venire le scimmie e domani cerchiamo di finire».
In un altro stralcio, padrone e caporale trovano una pratica soluzione per dissetare i lavoratori alle loro dipendenze che chiedevano acqua da bere: «Siccome ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua, gliele riempiamo nel canale. Se ci sono un paio di bottiglie vuote. Quelle che trovi quando togli i cespugli». Questi criminali non possono essere considerati imprenditori ma responsabili di un'organizzazione fondata sulla subordinazione, sul razzismo e sul lavoro coatto. La paga per questi lavoratori? Dieci euro per ogni giornata lunga quasi il doppio della sua durata sancita dal contratto di lavoro, ossia tra le 10 e le 12 ore di lavoro al giorno. Si tratta di circa 1 euro di retribuzione l’ora, con l’aggiunta dell’acqua batterica raccolta in un canale, il razzismo e la violenza del padrone e l'indifferenza di tanti. Un fenomeno che ancora Bilongo fa notare essere diffuso in tutta Italia. «Cassina de’ Pecchi, una quindicina di chilometri a Nord Est dal Duomo di Milano – dichiara – dalla piccola cittadina che si scorge lunga la Statale 11 Padana Superiore, è sorta una start up “giovane e innovativa”. Fa del Km Zero la sua carta vincente. I suoi variopinti Apecar sono conosciuti e riconoscibili in tutta Milano. Una storia sulla quale si erano sprecati encomi e riconoscimenti”. Encomi giunti anche dalla Coldiretti ad un'impresa che produceva e vendeva a Km0. «Peccato – continua Jean Renee - che dietro queste apparenze scintillanti, si celassero il caporalato e lo sfruttamento nelle loro declinazioni più becere.
A insospettire la Guardia di Finanza, le continue assunzioni di avventizi migranti, puntualmente scaricati dopo due giorni di lavoro. Il trucco era tutto qui: lavoravano un paio di giorni per essere poi scaricati. Senza essere pagati. Nei confronti del centinaio di maestranze fisse invece, costrette a una media di 11 ore giornaliere di lavoro per paghe da fame, il conduttore si vantava del “clima di terrore” in azienda.” Anche in questo caso le intercettazioni nei riguardi dal padrone non lasciano scampo: “con loro devi lavorare in maniera tribale […], devi fare il maschio dominante».
I linguaggi e il razzismo
Maschio dominante, ossia padrone, capo, boss, duce. Linguaggi e comportamenti che ispirano e nel contempo sono ispirati anche da certa politica. Anche in questo caso un esempio torna utile. L’ex ministro Salvini, il 2 giugno del 2018, Festa della Repubblica, affermò in modo triviale e provocatorio in una forma tale che il rispetto che si deve alle istituzioni non dovrebbe consentire: “la pacchia è finita!”.
Però quello era lo stesso giorno in cui finì la pacchia, o meglio la vita del 29enne maliano Soumaila Sacko, ucciso a fucilate a San Calogero, provincia di Vibo Valentia. Sacko era un criminale? No. Era un attivista per i diritti dei migranti e combatteva contro lo sfruttamento. Venne ucciso solo perché stava tentando di recuperare qualche lamiera in una fabbrica abbandonata per costruirsi una baracca, proprio nel vicino ghetto di San Ferdinando. «Il Decreto Sicurezza li aveva trasformati in ricettacoli surrogati degli espulsi dalle reti di accoglienza. Le conseguenze si vedono tuttora, come la drammatica vicenda del lavoratore senegalese Gassama Gora, ucciso da un pirata della strada mentre ritornava alla tendopoli di San Ferdinando, sulla sua bici. Era il 18 dicembre scorso, Giornata Internazionale del Migrante, coincisa con il ravvedimento, al Senato, delle ciniche norme del Decreto Sicurezza» ricorda Bilongo.
Come continuare questa lotta? «La lotta allo sfruttamento e al caporalato non può essere questione secondaria rispetto alle priorità sociali del Paese. Noi non dimentichiamo le ecatombi, le stragi dello sfruttamento e del caporalato. Rimbombano i pianti, le sofferenze, le vessazioni, le violenze di natura anche sessuale che deturpano il lavoro nei campi di questo Paese», afferma Jean Renee che sa bene cosa significhi lavorare sotto padrone. Resta la convinzione che senza l'impegno sul campo, nelle aule di giustizie e nelle aule della politica e in quelle delle istituzioni, sommato alla capacità di accogliere la sete di giustizia di migliaia di uomini e donne, spesso immigrati, gravemente sfruttati, non avremo mai la possibilità di sconfiggere le agromafie e lo sfruttamento. A meno che non si decida di parlarne, pubblicare rapporti, fare convegni e feste, e poi far finta di nulla.
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