Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.


Dannata è Palermo nell’estate del 1982, dove tutto sembra irreale e tutto accade sotto lo sguardo di Carlo Alberto dalla Chiesa, sessantadue anni, il generale che dopo una vita da carabiniere lascia l’Arma e scende in Sicilia «per combattere la mafia».

Dalla mattina dell’uccisione di Pio La Torre, il 30 aprile, è lui il nuovo prefetto.

«Eccellenza, dolce o amaro?». Con ostentata cortesia il domestico appoggia la tazzina del caffè sul tavolo e fa un cerimonioso inchino. Il prefetto l’avvicina alle labbra e aspetta che qualcuno dei suoi ospiti ne mandi giù un sorso. Non beve mai il caffè prima degli altri. Ha paura di morire, avvelenato come Gaspare Pisciotta. E sospetta che possano farlo anche lì, nelle sale di Villa Whitaker, una palazzina rossastra in stile veneziano fatta costruire dai pronipoti degli Ingham, facoltosa famiglia inglese che produceva un vino liquoroso – il Marsala – ancora prima dello sbarco di Garibaldi in Sicilia.

Specchiere, stucchi, decorazioni liberty, cristalli, divani damascati, dipinti. Lunghi corridoi che s’inseguono piano dopo piano. Spie in ogni stanza.

Due inservienti sono imparentati con gente di Cosa Nostra.

Un impiegato si chiama Antonio Miceli ed è il fratello di Joseph Miceli Crimi, il medico della polizia che ha sparato a Michele Sindona nascosto a Palermo.

Un segretario è nipote di un vecchio boss – Vincenzo Catanzaro detto il Borbone – che il generale ha conosciuto nel bosco della Ficuzza quando da giovane capitano comandava le squadriglie di Corleone, al tempo della lotta al banditismo.

La prefettura di Palermo è un labirinto immerso fra acacie e oleandri, deposito di misteri di mafia e misteri di Stato.

Fra benvenuti e salamelecchi, Carlo Alberto dalla Chiesa è studiato, sorvegliato, intercettato. Si accorge che qualcuno apre la sua corrispondenza personale, qualcun altro ascolta le sue telefonate.

Fa spostare la scrivania a ridosso di un muro, lontano dalla finestra, la luce entra violenta da via Cavour, i palazzi di fronte sono a una cinquantina di metri, le impalcature dei lavori in corso sembrano il luogo ideale per un cecchino.

Prigioniera è Palermo nell’estate 1982, soffocata dall’afa e presa a tradimento dai suoi sicari padroni delle strade.

Un omicidio ogni 72 ore nel mese di giugno, un omicidio ogni 48 ore a luglio, un omicidio ogni 12 ore ai primi di agosto.

Alla Milicia, la campagna verdissima che da Altavilla e Casteldaccia scende verso il mare di Bagheria, i morti ammazzati sono quattordici in una sola settimana.

Il prefetto ordina ai battaglioni mobili dei carabinieri di presidiare i paesi sotto assedio, posti di blocco, perquisizioni, armi sequestrate, impronte digitali controllate, guanti di paraffina, interrogatori, fermi. I killer non si trovano mai.

Le prime pagine del giornale L’Ora sono ormai fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81… 84… 87…

Gli omicidi a Palermo dall’inizio dell’anno.

L’11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l’inchiostro rosso si spande sulla foto dell’ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100.

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