L’uomo è nato combattente. È uno di quegli italiani cresciuti nell’«amor di patria» – orgoglio, sacrificio, fedeltà –, è un servitore dello Stato che però non si è mai fatto incantare da Roma capitale e dai suoi vizi. Per lui l’Italia è il «suo» popolo, quello che ha conosciuto dalla valle del Belice alle Prealpi comasche, caserma dopo caserma, incarico dopo incarico.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
L’uomo è nato combattente. È uno di quegli italiani cresciuti nell’«amor di patria» – orgoglio, sacrificio, fedeltà –, è un servitore dello Stato che però non si è mai fatto incantare da Roma capitale e dai suoi vizi. Per lui l’Italia è il «suo» popolo, quello che ha conosciuto dalla valle del Belice alle Prealpi comasche, caserma dopo caserma, incarico dopo incarico.
Del piemontese ha il rigore, dalle sue origini emiliane eredita l’estro, ha un rispetto scrupoloso della tradizione ma anche un’anima «moderna» che disvela quando è a capo dell’Antiterrorismo negli Anni Settanta: reparti speciali, infiltrati, una spregiudicatezza operativa che gli attira disapprovazione e sospetti. A sinistra soprattutto. E nelle burocrazie ministeriali, fra magistrati e alti comandi.
Carlo Alberto dalla Chiesa è carabiniere dalla testa ai piedi – «Ho gli alamari cuciti sulla pelle», dice di sé con compiacimento – ma attraversa tempeste per quarant’anni anche dentro la sua amatissima Arma.
È un potente che non piace ai potenti. È romantico, scaltro ma anche ingenuo, adorato e detestato, invocato e temuto, onesto, autoritario, affettuoso. È il generale delle «emergenze» nazionali, tutto impeto e sentimento.
È troppo vero per un’Italia di egoismi e convenienze.
Ed è troppo rischioso averlo tra i piedi nella Sicilia dei giuramenti di sangue, con i ministri che vanno a cena con i boss, con i questori che fanno finta di non vederli.
Nell’agosto del 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa aspetta la sua ora. Le sabbie mobili di Palermo se lo stanno divorando.
«L’operazione da noi chiamata Carlo Alberto l’abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa», è la telefonata che arriva dopo l’ultimo omicidio fra Villabate e Altavilla.
Una rivendicazione così a Palermo non l’hanno fatta mai. Sembra un proclama terroristico o una dichiarazione di guerra, in stile militare.
Sono a Casteldaccia, quando arriva quella telefonata. Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei carabinieri. Lì c’è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante del nucleo operativo di Palermo. È davanti a un’utilitaria impolverata, la parte posteriore dell’auto è «abbassata», schiacciata verso l’asfalto.
Ormai, si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì dentro c’è un uomo.
Il capitano apre.
È un «incaprettato», mani e piedi legati con una corda che gli passa intorno al collo.
Si è ucciso da solo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima finisce per strangolarsi. «È un altro regalo per il nostro generale», dice l’ufficiale mentre via radio gli arriva la notizia che c’è stato un omicidio anche sulla piazza di Trabia.
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