In una Palermo che lo respinge e lo aggredisce, il giudice è ormai l’incarnazione della lotta contro il crimine più di chiunque altro in Italia. Dal 1983 al 1992 affronta in solitudine una guerra che inchioda i boss ma inchioda anche se stesso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Il consigliere istruttore muore il 29 luglio del 1983. Un’autobomba. «Palermo come Beirut», titolano i quotidiani italiani.
Con Rocco Chinnici perdono la vita anche due carabinieri – il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta – e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi, dove il magistrato abita. È il cuore della Palermo nuova, in linea d’aria neanche a duecento metri dalla casa di Giovanni Falcone.
Il consigliere istruttore qualche giorno prima ha spedito due comunicazioni giudiziarie – così si chiamavano allora gli avvisi di garanzia – ai cugini Nino e Ignazio Salvo, gli «intoccabili», gli esattori mafiosi di Salemi. E soprattutto, Chinnici ha avuto il grave torto di avere lasciato campo libero a Falcone.
L’indagine su Rosario Spatola si è trasformata ormai in una grande inchiesta sulla mafia di Palermo. Quella che porterà a una monumentale sentenza ordinanza con 474 imputati e al maxi processo contro Cosa Nostra.
Rocco Chinnici viene eliminato. Come il suo predecessore Cesare Terranova. Come il procuratore capo Gaetano Costa.
Tutti i nemici di Falcone
In una Palermo che lo respinge e lo aggredisce, il giudice è ormai l’incarnazione della lotta contro il crimine più di chiunque altro in Italia. Dal 1983 al 1992 affronta in solitudine una guerra che inchioda i boss ma inchioda anche se stesso.
In Sicilia Giovanni Falcone è considerato un nemico, uno che ha la vanità di diventare lo zar dell’Antimafia. È un magistrato mal tollerato dalla magistratura. Ha una sapienza giuridica che non piace ai tecnici del diritto. È slegato dai partiti e dalle fazioni nella corporazione. È un italiano fuori posto in Italia.
Ha talento, passione civile, tenacia, un fiuto investigativo eccezionale, una straordinaria esperienza, un’ossessione per il rispetto delle regole. È uno di quei siciliani «illuministi» che credono nello Stato e servono lo Stato. Troppo per pretendere una vita normale e un po’ di riconoscenza.
Sono pochi, nel nostro Paese, che nel breve volgere di qualche stagione hanno accumulato tante disfatte. Bocciato come consigliere istruttore a Palermo.
Bocciato come candidato al Consiglio Superiore della Magistratura.
Bocciato come Alto Commissario antimafia. Quasi bocciato anche come Procuratore Nazionale. L’uccidono prima.
Su Repubblica, Mario Pirani lo descrive come l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di Solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte.
Giuseppe D’Avanzo, uno dei giornalisti che Falcone stimava di più, ricorda «l’umiliante sottrazione di cadavere» compiuta dopo la strage di Capaci.
Tutti a rievocarlo, tutti a riconoscersi nel suo pensiero, a impadronirsi del suo spirito.
Chi l’ha violentemente intralciato in vita, lo invoca in morte.
Ha cinquantatre anni e cinque giorni quando vede per l’ultima volta la sua Sicilia.
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