Dopo undici anni di dura detenzione e rari permessi, mio padre decise di cominciare un percorso di collaborazione, e di «redenzione», come nessuno mai aveva ancora fatto, prima quale «informatore» e infine comunicando alle autorità preposte di volersi dissociare ufficialmente da Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Mi chiamo Luana Ilardo, sono figlia di Luigi Ilardo, nato nel 1951, cugino del più noto Giuseppe Madonia, nipote di Francesco, vicino al clan dei Corleonesi, capomafia di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta, che fu ucciso dalla fazione palermitana.
Era il 1978. Quello stesso anno fu «combinato» e divenne «uomo d’onore», mio padre Luigi. Dopo poco da quel giuramento, fu spiccato contro di lui un mandato di cattura. Motivo per cui mio padre si diede latitante. Normale che la strada per lui fosse già tracciata, per un giovane ventisettenne, legato allo zio, cresciuto nei codici che appartenevano non solo alla famiglia ma al luogo geografico e mentale, in quella zona brulla chiusa su di sé, noi isolani tra gli isolani.
Io nacqui nell’aprile del 1980. Fino ai miei tre anni, mio padre fu un uomo in fuga; quando fu arrestato era il 1983 e rimase in carcere, salvo alcuni periodi di permessi speciali, per undici anni. La maggior parte scontata in regime di 41 bis, carcere duro, con gravose restrizioni della libertà personale. Saldato il suo debito con la giustizia, uscito dalla galera nel gennaio del 1994, decise di prendere le distanze da un sistema ai suoi occhi profondamente cambiato rispetto agli anni in cui era entrato a farne parte.
Mi scopro a raccontare certe vicende intramezzandole con ricordi privati, e resto la bambina ignara di allora, eppure sono la donna consapevole di oggi. Deve essere qualcosa che ha a che vedere con la forza dell’amore. Nulla intacca il mio affetto. Come se quello che c’era fuori fosse stato altrove. E anche oggi le ombre passate e i pericoli presenti che mi sovrastano, mi inquietano, mi fanno soffrire, restano luoghi che io attraverso quale estranea pur andando fino in fondo alla mia battaglia, nella mia personale ricerca di giustizia.
Perché so che la mia liberazione avverrà quando emergerà la verità della storia, più grande di mio padre, nella quale lui si è trovato coinvolto e della quale è stato uno dei protagonisti. Quando uscirò da questo limbo? C’è il cielo sopra di me verso il quale guardo fiduciosa, e sotto l’abisso che mi costringo a ignorare, ma è una vertigine pericolosa. Per la mafia mio padre è il «traditore» e per lo Stato non è un collaboratore di giustizia, ma un informatore che ha rilasciato per anni «dichiarazioni spontanee» nell’ambito di quello che le forze dell’ordine definiscono «un rapporto confidenziale».
Se si può capire, dal loro punto di vista, il giudizio degli «uomini d’onore», anche se non è accettabile, la definizione che resta appiccicata a mio padre da parte delle istituzioni ha inquinato la narrazione, la verità fatica a venire a galla, il suo ricordo e il nostro presente di figlie e figli sono intaccati e noi viviamo in famiglia sempre sul chi va là: fidarsi di chi?
Fortunatamente, questa strana isola che è la Sicilia rimescola sempre le carte e nel mio andare ho incontrato sia alcune parti dello stato sia donne e uomini, un tempo su opposte barricate, che si ritrovano nella ricerca comune della verità. Io voglio raccontare a mia figlia la storia del nonno per quella che è stata: nel male e nel bene.
Dopo undici anni di dura detenzione e rari permessi, mio padre decise di cominciare un percorso di collaborazione, e di «redenzione», come nessuno mai aveva ancora fatto, prima quale «informatore» e infine comunicando alle autorità preposte di volersi dissociare ufficialmente da Cosa nostra.
Dopo due anni di questo rocambolesco cammino, che lo stava per condurre a divenire ufficialmente collaboratore di giustizia, mio padre fu ucciso con nove colpi di arma da fuoco sotto il balcone della nostra abitazione a Catania, in via Quintino Sella. Gli spari, provenienti dalla strada, echeggiano ancora nelle nostre orecchie. La prima a scendere fu Cetty, la sua seconda moglie, seguita a ruota da noi ragazze. Fui la prima a vederlo in una pozza di sangue, fui la prima a comprendere che da quella strada non si sarebbe rialzato.
Fui anche la prima cui quella morte in diretta cambiò per sempre la vita, ma sarò l’ultima a dimenticarlo e questa testimonianza vuole esserne la conferma. Da lì a qualche giorno, saremmo dovuti entrare ufficialmente nel «programma di protezione», era già tutto predisposto.
Venerdì 10 maggio 1996, alle 20.45, mio padre morì. Lunedì 13 maggio, all’alba, lo «Stato buono» avrebbe dovuto prelevarci dalle nostre vite per nasconderci chissà dove. Una fuga di notizie dalla Procura di Caltanissetta, come attestano le indagini giudiziarie, fece decidere un’improvvisa accelerazione del suo omicidio
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