Mio padre era molto rispettato e trattato con affetto anche all’interno del carcere dallo stesso personale penitenziario, il quale aveva sempre gentilezze e premure nei nostri confronti. Capitava a volte, soprattutto nel carcere di Lecce, dove ha passato diversi anni, che ci permettessero colloqui in piccole stanze private, in forma individuale.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Ben presto io e mia sorella tornammo inseparabili, l’una mai senza l’altra. Acquistati nuovi equilibri e abitudini, una delle prime tappe ovviamente fu il carcere per andare a trovare papà. Come sempre, ogni quindici giorni, arrivati al fine settimana iniziavano i preparativi per affrontare i lunghi viaggi, spesso in macchina. La spesa rigorosamente come le restrittive regole carcerarie prevedevano e sempre lo stesso menù: il falsomagro con il ragù e i piselli era il piatto preferito di papà, mia nonna impiegava due giorni per cucinarlo e confezionarlo proprio come lui desiderava.
La biancheria doveva essere secondo lettera ricevuta, dove espressamente chiedeva ogni singolo capo di abbigliamento, specificando nel dettaglio modello, marca e colore. Infine, la preparazione di noi figlie, che non era per nulla meno impegnativa: mio padre, infatti, teneva tantissimo al nostro abbigliamento, dovevamo essere sempre elegantissime anche nel minimo particolare e non potevamo mai indossare per più di una volta gli stessi capi. E così, qualche giorno prima del viaggio, eravamo solite uscire per andare in una delle migliori boutique per bambini e comprare nuovi vestiti da indossare con calze, scarpe e accessori annessi.
[...] Dopo lunghissime ore di viaggio e vari mezzi usati per raggiungere la struttura penitenziaria, si cominciava l’ennesima stremante attesa per accedere al colloquio, anche se solitamente erano quasi tutti pro forma i vari passaggi che ci attendevano. Si entrava da un ingresso principale aperto al pubblico dove, arrivati «all’accettazione», si iniziava a compilare infiniti fogli e ad allegare vari documenti, contestualmente si compilava il modulo in cui doveva essere riportato in maniera minuziosa qualsiasi bene (cibo, abbigliamento, biancheria, libri...) che veniva immediatamente ritirato e preparato al controllo. […] Conclusa l’accettazione dei pacchi in entrata, si attendeva il turno, a volte anche svariate ore, per un’ora sola di colloquio.
Quelle sale di attesa erano l’esatto specchio del massimo degrado della società. Si poteva vedere di tutto, dalle signore poco civili e scomposte ai bambini sporchi e irrequieti che si gettavano su ogni centimetro di pavimento gridando e lamentandosi con parole volgari nei più stretti dialetti siciliani. Mia nonna, prima di entrare, era solita fermarsi in un’edicola e comprarci quattro, cinque giornalini a testa per tenerci buone e sedute durante la snervante attesa.
Una rigida educazione familiare
La nostra rigida educazione imponeva una certa compostezza nonostante l’età e la noia sempre dietro l’angolo, soprattutto quando aspettare diventava, per vari motivi, estenuante. Superata l’attesa, cominciavano ad aprirsi e chiudersi dietro di noi infinite porte con sbarre di ferro e grosse chiavi che dividevano un ambiente dall’altro; l’ultima sala prima dell’incontro era quella dove eravamo sottoposte a metal detector e ulteriori controlli fisici a mano negli indumenti.
La nostra famiglia faceva sempre la differenza. Ci presentavamo in maniera elegante, discreta e composta nell’abbigliamento e nell’atteggiamento, per questo motivo con ogni probabilità eravamo sempre ben accolti e trattati con un occhio di riguardo: «Siete la famiglia di Ilardo, vero? Si vede, signora! Quanto è educato suo figlio, un signore come pochi, noi continuiamo sempre a chiederci cosa ci faccia qui un ragazzo del genere...!». Mio padre era molto rispettato e trattato con affetto anche all’interno del carcere dallo stesso personale penitenziario, il quale aveva sempre gentilezze e premure nei nostri confronti.
Capitava a volte, soprattutto nel carcere di Lecce, dove ha passato diversi anni, che ci permettessero colloqui in piccole stanze private, in forma individuale: quelle erano occasioni intime durante le quali, non separati dalle solite barriere, potevamo avere un contatto fisico. Ricordo i primi colloqui che feci a Favignana, quando ero ancora più piccola. Le regole erano diverse per la tenera età mia e di mia sorella. Entravamo in grandi stanze dove c’erano diversi tavoli rotondi, ognuno occupato da una famiglia. Mio padre ci attendeva lì, con un tavolo stracolmo di merendine e dolci di ogni genere. Proprio durante una di quelle visite, al momento del saluto, ricordo un’ennesima crisi di pianto. Infatti, continuavo a piangere e dimenarmi dicendogli che volevo rimanere a dormire con lui là dentro.
Sento ancora la sua solita e rammaricata risposta: «... sai che papà deve lavorare e appena può torna a casa». Una di quelle volte fu davvero straziante per me e, ora, penso chissà quanto lo sia stato per lui. Appena sentivo: «Ilardo, la visita è finita!» cominciavo subito a piangere ed ero trasportata fuori a forza. Inutile dire che oggi, solo per la sofferenza che mio padre provava in quei tristi secondi, avrei evitato tante lacrime e inutili capricci, se così si possono definire. Un sorriso grande quanto il mondo al nostro ingresso. Un dolore enorme a ogni saluto. Nel frattempo, mentre crescevo, continuavano a cambiare frequentemente il carcere dove papà era detenuto. Per noi erano sempre amare sorprese, a volte ricevevamo le telefonate a casa che ci informavano della situazione, ma tante volte no.
Capitava infatti che, come da abitudine, a cadenza quindicinale, ci preparassimo nel rispetto del solito rituale (cibo, vestiti, viaggi al carcere preposto) e solo al nostro arrivo ci sentissimo dire: «Ilardo è stato trasferito...». Inutile tentare di descrivere lo stato d’animo che si impadroniva di tutti noi. La disperazione di mia nonna era leggibile sul suo viso. Il passo successivo, poi, era comunicare a me e mia sorella la tragedia di un viaggio a vuoto e l’impossibilità di abbracciare papà. Nonostante fosse una situazione anomala (lo comprendo solo oggi), noi eravamo abituate a quello stile di vita e a quella sfiancante attesa per una sola ora di visita, tuttavia la delusione e la frustrazione del mancato appuntamento diventavano logoranti per le settimane successive. [...]
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